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Chiamiamo le cose col proprio nome

Articolo dal sito di Psicologia Gay
.Photo credit zazzle.com

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“IL” transgender Anna è andato o è andata a fare la spesa?

Wikipedia così esemplifica la differenza “accademica” e “giornalistica” tra avere un nome da donna ed essere biologicamente una donna (in cui si ha la coniugazione al femminile del verbo) o avere un nome da donna ed essere una transgender (che cambia sì il nome, ma deve rimanere ancorata alla coniugazione al maschile del verbo).

Un recente articolo del New York Times affronta la tematica della forte rileanza del nome per le persone transgender, dichiarando a chiare lettere che il nome (e, aggiungerei io, la coniugazione di verbi e aggettivi) è un messaggio. Ed è un messaggio forte.

Si potrebbe erroneamente pensare che il cambiamento di nome sia una questione minore per le persone che affrontano il percorso di cambio di genere, minore in confronto alle psicoterapia, alle cure di ormoni, alle dolorose procedure di depilazione e allo sforzo di trovare medici comprensivi e disponibili. Per non parlare dei rischi e delle sofferenze legate agli interventi chirurgici.

Invece coloro che hanno affrontato e superato questo difficile e lungo percorso sostengono che il nome è un importante messaggio verso il mondo, tanto da affrontare richieste a procedimenti alla Corte Civile per ottenerlo. Mahattan è diventata, grazie alla lungimiranza della sua Corte Civile, la capitale dei procedimenti “Joe diventa Jane”, con una rete di 200 avvocati che lavorano per questo e almeno 400 clienti che hanno cambiato il loro nome.

Negli ultimi due anni avvocati volontari di alcuni degli studi più famosi della città di NY hanno collaborato con il “Transgender legal defense and education fund”, il cui direttore esecutivo, M. D. Silverman, definisce il cambiamento di nome “un grande coming out”.

Tornando nel vecchio continente, già dal 2006 il governo spagnolo ha varato una legge secondo la qulae una persona transessuale può modificare il proprio nome e il proprio sesso all’anagrafe anche prima di aver subito l’intervento per il cambio di riattribuzione. Ad approvare il disegno di legge sull’Identità sessuale è stato il Consiglio dei Ministri. Il vicepremier Maria Teresa Fernandez de la Vega (un nome, un programma!) ha spiegato le motivazioni di questo provvedimento: “Contribuirà a rendere più degna la vita di migliaia di persone che si trovano in questa situazione”.

In Italia per il momento il cambio di nome si può richiedere solo dopo l’intervento di riattribuzione, e ricorrendo ad un tribunale.

In relazione a questo vorrei raccontarvi cosa dissero due persone alla fine del percorso di transizione.

Ms. Schnur, che vide le sue vecchie foto qualche mese dopo aver cambiato il suo nome disse: “Ho sempre saputo di non essere quello che gli altri pensavano che fossi”.

Ms. Whitney, invece, ha raccontato al New York Times che prima di rifare i documenti con la sua nuova identità, ogni volta che gli veniva chiesto di mostrare la sua patente di guida, pensava che mostrare una foto e il nome di qualcuno che non esisteva più era roba da pazzi.

Io mi irrito molto quando qualcuno sbaglia il mio nome (pur chiamandomi con nomi adeguati alla mia identità di genere) e mi sono chiesta che effetto farebbe a me dovermi presentare con un nome che non sento mio, dover continuare ad usare una identità che non mi rispecchia al punto di decidere di cambiarla completamente e legalmente.

Vi pongo la stessa domanda. Pensate che il nome sia davvero così importante o pensate che in fondo una volta trovata la propria identità non sia importante comunicarla al mondo intorno a noi?

fonte:http://www.psicologiagay.com/chiamiamo-le-cose-col-proprio-nome/comment-page-1/#comment-263

Commenti

Il grande marziano ha detto…
Noi usiamo i nomi, le parole, gli aggettivi per "definire" il mondo e per "comunicare" con esso. Quindi sono fondamentali. Tanto più quando concernono il concetto di "identità", così legato alla sfera intima della persona.

Gli altri non "sentono" quello che ciascuno di noi è, non "sentono" quello che ciascuno prova rispetto a se stesso. Gli altri ci "guardano" e, in base a questo processo di assimilazione, "comunicano" con noi in un determinato modo.

Per questo credo sia fondamentale che ci sia concordanza tra quello che gli altri percepiscono di noi, e quindi il loro modo di "comunicare" con noi, i nomi che usano, le parole, gli aggettivi, e quanto ciascuno sente dentro di sé.

Perché rispetto a un mondo fatto per forza di cose anche di relazioni, non possiamo prescindere dalle definizioni che gli altri danno di noi.

Per questo il pieno riconoscimento e l'accettazione di se stessi passa anche attraverso il riconoscimento e l'accettazione degli altri nei nostri confronti. E quindi al loro modo di definirci e di parlare di noi.

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