Giorgia Meloni segue con coerenza la traiettoria delle destre radicali internazionali: da Javier Milei a Viktor Orbán, passando per Donald Trump. Una linea politica che si nutre di propaganda, polarizzazione e costruzione sistematica del nemico. In Italia, il bersaglio è l’opposizione, accusata di ogni male per distogliere l’attenzione da una realtà economica e sociale sempre più drammatica.
Bollette, carburanti e beni di prima necessità hanno raggiunto livelli insostenibili. I salari restano fermi, le pensioni si assottigliano, mentre la sanità pubblica e la scuola vengono svuotate di risorse. In questo contesto, il governo Meloni continua a favorire interessi privati, banche e lobby, mentre la retorica patriottica serve a coprire un’agenda regressiva.
Meloni è una donna, ma non rappresenta un avanzamento per i diritti di genere. Al contrario, molte femministe la considerano una traditrice simbolica delle lotte delle donne. La sua ascesa non ha portato con sé un’agenda femminista, ma un consolidamento del potere patriarcale. Come disse Trump, “è solo una bella donna”: una frase sessista che, paradossalmente, riflette il modo in cui certi ambienti conservatori la celebrano.
Il suo rifiuto di confrontarsi con la stampa, come dimostrato anche nell’incontro con Trump, è un segnale di chiusura e debolezza democratica. Ma ciò che preoccupa ancor di più è il silenzio — o la timidezza — con cui una parte della sinistra istituzionale reagisce a questa deriva. Di fronte a una destra che occupa lo spazio pubblico con arroganza e revisionismo, la sinistra appare spesso afona, incapace di costruire un’alternativa radicale, popolare e credibile.
In questo vuoto, voci come quella di Elly Schlein — che ha denunciato apertamente la deriva autoritaria del governo Meloni al Congresso del Partito Socialista Europeo — rappresentano un atto di coraggio politico. Ma non possono restare isolate. Serve una risposta collettiva, chiara, determinata. Perché la democrazia non si difende con la prudenza, ma con la verità.

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