Finalmente si chiama la violenza con il suo nome. Le cosiddette “terapie di conversione” non sono pratiche mediche né percorsi di cura: sono abusi travestiti da interventi, tentativi sistematici di cancellare l’identità LGBTQ+ sotto il pretesto della normalizzazione.
La Commissione Europea ha annunciato l’intenzione di contrastarle. Bene. Ma basterà una direttiva a fermare pratiche che negano la dignità, il corpo, la voce di migliaia di persone?
Non basta dire “stop”. Serve una presa di posizione radicale.
Serve ascoltare chi ha subito. Serve smantellare l’idea che l’orientamento sessuale o l’identità di genere siano “errori da correggere”. Serve una rete di protezione, leggi chiare, sanzioni, educazione, memoria.
Perché ogni volta che si parla di “terapia”, si rischia di legittimare l’orrore. E ogni volta che si tace, si diventa complici.

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