“Non si guarisce da ciò che si è. Si guarisce dal dolore di non poterlo essere.”
Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha riacceso una fiamma pericolosa: quella delle pratiche di conversione. Dietro il linguaggio burocratico e le manovre legislative, si cela un tentativo inquietante di normalizzare interventi che mirano a “correggere” l’identità di genere e l’orientamento sessuale. Pratiche che la comunità scientifica ha dá tempo condannato come inefficaci, dannose e profondamente violente.
Questa non è solo una questione americana. È un segnale globale. Quando un governo potente ridefinisce la tortura come “terapia”, il rischio non è solo per chi vive sotto quella bandiera. Il rischio è che il concetto stesso di libertà venga riscritto.
Cosa significa “conversione” oggi?
Non parliamo più solo di cliniche nascoste o pastori zelanti. Parliamo di politiche pubbliche, di fondi federali, di campagne che mascherano l’odio sotto il velo della “cura”. Parliamo di un attacco sistemico alla possibilità di esistere fuori dalla norma.
Perché dobbiamo parlarne
Perché il silenzio è complice. Perché ogni volta che un’identità viene patologizzata, perdiamo un pezzo di umanità. Perché dietro ogni “terapia” c’è una persona che ha imparato a dubitare di sé, a nascondersi, a sopravvivere invece di vivere.
Perché il silenzio è complice. Perché ogni volta che un’identità viene patologizzata, perdiamo un pezzo di umanità. Perché dietro ogni “terapia” c’è una persona che ha imparato a dubitare di sé, a nascondersi, a sopravvivere invece di vivere.

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