Il 12 ottobre 2025, Nassau ha ospitato due processioni. Una era la marcia del Pride Bahamas, un inno alla dignità LGBTQI+, alla libertà di essere e credere. L’altra, guidata da leader evangelici, era una contro-marcia: cartelli, prediche, slogan. Non per difendere la fede, ma per negarla agli altri.
“The Bahamas belongs to God”, gridavano. Ma quale Dio? Quello che esclude, condanna, divide? O quello che accoglie, ascolta, cammina con chi è emarginato?
Le frange evangeliche che si oppongono ai diritti LGBTQI+ non stanno difendendo la spiritualità. Stanno strumentalizzando la religione per alimentare l’odio. E non è solo una questione queer: è un attacco alla pluralità, alla convivenza, alla libertà di coscienza.
Queste comunità non predicano amore. Predicano paura. E lo fanno in nome di un Dio che, se esiste, piange nel vedere la sua parola usata come arma.
✊ Nazionalismo religioso: quando Dio diventa confine
La frase “The Bahamas belongs to God” non è solo un’espressione di fede. È una dichiarazione politica. In contesti come quello della marcia LGBTQI+, viene usata per affermare che la nazione appartiene a una sola visione religiosa, e che chi non si conforma — queer, ateo, musulmano, spirituale ma non religioso — è un corpo estraneo.
Il nazionalismo religioso trasforma Dio in un simbolo di potere, non di compassione. Legittima la discriminazione come “difesa dei valori”. E impone una moralità unica, spesso patriarcale e eteronormativa.
Ma la spiritualità queer non chiede di possedere la nazione. Chiede di esistere dentro di essa. Di camminare con fierezza, anche quando la strada è stretta. Di dire: “Io sono qui. E nessuna bandiera religiosa può cancellarmi.”
La marcia del Pride non è solo politica. È spirituale. È il diritto di dire: “Io esisto. E la mia fede non ha bisogno del vostro permesso.”
È tempo di smascherare l’ipocrisia religiosa che si traveste da moralità. È tempo di chiedere: chi ha il potere di escludere? E perché lo esercita con tanta violenza?

Nessun commento:
Posta un commento