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martedì 17 novembre 2009

Riflessioni sul cinema en travesti, alla ricerca di un'identità.


Storie di trans creati da donne

Difficile dire se il cinema abbia contribuito alla conoscenza corretta, responsabile e approfondita dell'esperienza trans e delle figure transgender, soggetti che mettono in discussione l'eterna dualità tra maschile e femminile fino a scomporla, suggerendo la possibilità di nuove e altre espressioni della realtà sessuata, più destrutturate e affrancate da gabbie concettuali. Film come Transamerica o l'ipernapoletano Mater Natura hanno messo in scena questa natura ambigua in transito in modo vitale e non omologato. Accanto al cinema che racconta i gay, almeno quelli che oggi vanno per la maggiore, quelli metropolitani, che hanno grandi possibilità economiche, che indossano abiti firmati e hanno codici di comportamento e costumi di vita precisi, ne esiste uno che rivela ed esibisce un mondo più marginale e più antico. Qualcosa e qualcuno che è più legato alla natura mentre il gay è essenzialmente un "prodotto" culturale. Il trans con la sua identità fluttuante e mutevole è davvero una figura epocale che, prima di rivendicare nuovi territori dell'identità sessuale, si perde e si ricostruisce nel dolore. Le trasformazioni del proprio aspetto, del proprio corpo o della propria identità di genere sono numerose e varie e il fenomeno non è né nuovo né esclusivo appannaggio della nostra cultura. Prova della sua esistenza si rintraccia nei più antichi miti documentati che dimostrano come il fenomeno permanga largamente in questa o quella forma (mutamento di sesso o mutamento di abbigliamento) e sia stato integrato nelle culture secondo una variabile graduazione di accettazione sociale. Al di là o attraverso è il significato della particella latina "trans" che nel 2005 Duncan Tucker antepose al topònimo America. Transamerica indica allora lo spostamento geografico come costruzione di un'identità che scavalca i generi sessuali. Quello di Stanley è un viaggio iniziatico alla ricerca di una nuova frontiera e di un orizzonte di attese mantenute: costretta in un corpo e a un nome maschili, subirà presto un intervento per essere evidentemente Bree, come è solita farsi chiamare. L'intelligente esordio di Tucker si confronta coi temi del gender senza pedanterie, o peggio, cadute cialtronesche. Più del film di Ang Lee, I segreti di Brokeback Mountain, uscito un anno prima, Transamerica ha messo in grande difficoltà l'America, schizofrenica e scissa come Bree, alla disperata ricerca di una propria identità non soltanto fisica. Transgender è allora la nazione (quattro anni fa governata da Bush), col suo corpo dibattutto interiormente tra il desiderio di essere "altro" e la consapevolezza di non esserlo. Più naïf ma energico e ambizioso nel maneggiare una materia delicata e complessa, almeno quanto è diretto nello svolgimento narrativo e nella partecipazione emotiva, il Mater natura di Massimo Andrei si avvale, proprio come Transamerica, di una donna che si finge un trans che vuole essere una donna. Maria Pia Calzone e Felicity Huffman identificano così un altro modello di comportamento: l'attore. Una figura sfuggente ed enigmatica che si cela dietro ad un ruolo, che si maschera nei panni del divo ma che esiste solo mediante la capacità di rimanere se stesso divenendo un altro. Il paradosso dell'attore, per citare Diderot, riflette l'America multietnica e polisessuale di oggi, il Paese della contrapposizione indomabile, che non sa di essere quello che è veramente e che sembra poter esistere unicamente in questa conflittualità devastante. I colori sgargianti e i piumaggi nascondono perciò le tappe di avvicinamento alla ricongiunzione, fino al traumatico svelamento di sé, che contiene la possibilità di ricominciare, di rinominare le cose e reinventare il mondo.


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