La tragedia del Sirio: contro gli scogli a tutto vapore
La famiglia di Felice Serafini si imbarcò a Genova sul Sirio La meta era il Brasile Il piroscafo ci mise sedici giorni ad affondare «Avrebbero potuto salvarsi»
Amalia Dal Lago in Serafini mise tutto in una botte: le piccole cose più preziose e le camicie, le canottiere, le lenzuola della dote, le mutande, le braghette dei bambini, i vestitini delle bambine. Non aveva mai avuto una valigia. Né immaginava, lei che già aveva provato uno spaesamento a trasferirsi con il matrimonio da Chiampo ad Arzignano, che le sarebbe mai servita. Così, quando il marito Felice le disse che i passaporti erano pronti e che tra luglio e agosto sarebbero partiti per il Brasile, non trovò di meglio che recuperare quella specie di «container» agricolo senza dovere affrontare una nuova spesa. Si erano venduti tutto, per andarsene: qualche campo, un paio di vacche, un po' di pecore, la povera mobilia e il pezzo di casa nel quale vivevano con la famiglia di Giorgio Serafini, il fratello più grande detto «Joio». Tutto. Non aveva visto altra scelta, Felice: dopo 15 anni di matrimonio si ritrovava con 8 figli vivi, precisazione importante data la mortalità infantile di quei tempi, e un nono in arrivo che non avrebbe conosciuto mai. Per giorni e giorni, come avrebbero ricordato ancora un secolo dopo i nipoti custodendo le preziose memorie di famiglia, fecero il giro di tutti i parenti e di tutti i compari e di tutti gli amici per salutare una a una le persone che non avrebbero più rivisto. Perché avessero scelto il Brasile non c' era bisogno di spiegarlo, lo diceva una canzone piena di astio verso i ricchi, i padroni, i notabili che avevano un tenore di vita immensamente superiore: «Italia bella mostrati gentile / e i figli tuoi non li abbandonare / sennò ne vanno tutti in Brasile / e non si ricordan più di ritornare». Con quella strofa splendida e straziante che diceva: «Ogni po' noi si sente dire: "E vo / là dov' è la raccolta del caffè"».(...) Messi gli abiti più belli, Felice, la moglie e i figli passarono anche dal fotografo «L. Recalchi» per lasciare ai parenti un ricordo di tutta la famiglia. Lui, giacca, panciotto e camicia candida senza cravatta, è al centro in piedi, una piega amara sotto i baffi, una mano sulla spalla della moglie. Lei, la testa leggermente china per pudore, è vestita di nero con una spilla appuntata sul petto e i capelli raccolti. I figli più grandicelli, Umberto di 14 anni, Isidoro di 12, Silvio di 11 e anche Ottavio che di anni ne aveva solo 6, indossano una giacchina col gilè come fossero già adulti. Le bambine, Silvia di 9 anni, Ottavia di 7 e Lucia di 3 portano vestitini a rombi e a quadretti, così come l' ultimo nato Giuseppe che a 2 anni indossa un grembiulino che a suo tempo doveva essere stato delle sorelline. Fatto tutto, reso rispettoso omaggio alle autorità comunali, raccolte 5.000 lire per i biglietti e le prime spese, salirono infine una mattina su un carretto in affitto, si fecero portare da «Joio» alla stazione di Vicenza e da lì partirono in treno verso Genova, dove li attendeva la nave che avrebbe dovuto trasportarli dall' altra parte dell' Atlantico, il Sirio. (...) Un vecchio vapore acciaccato. «Fermiamoci un momento a considerare il teatro di tanto disastro» avrebbe scritto il Corriere della Sera del 9 agosto. «Cabo de Palos è un promontorio situato sulla costa orientale della Spagna, in provincia di Murcia, a 25 chilometri da Cartagena, verso Levante. (...) Sul Cabo, a 80 metri sul livello del mare, c' è un faro attivato nel 1865 alto 50 metri». Un faro vistosissimo. Come vistosissimo era un secondo faro su Hormiga Grande, l' isola maggiore del piccolo arcipelago. (...) Lo sapevano tutti quanto fosse pericoloso passare lì, tanto è vero che i bastimenti per evitare ogni rischio transitavano una quindicina di miglia al largo. Lo sapevano tutti e lo segnalavano tutte le carte nautiche. Tranne, figurarsi, quelle in dotazione al Sirio. (...) In realtà, avrebbe accusato sul Corriere Giulio Maggi, un ingegnere che col figlio Marco era riuscito a salvarsi, «un ufficiale affermò che a bordo nessuno poteva conoscere la posizione degli scogli perché non possedevano tutte le carte dettagliate necessarie, ma solo una piccola cartina di rotta». (...) Avrebbe raccontato il comandante della nave francese Marie Louise, che con cautela saliva verso Alicante: «Vidi passare il piroscafo italiano Sirio che navigava a tutto vapore. Facevo notare il suo passaggio al collega di bordo quando osservai che esso si era improvvisamente fermato. (...) Vidi la prua alzarsi, inabissando la poppa. Non vi era più alcun dubbio: il Sirio aveva avuto un urto. Subito feci dirigere il Marie Louise verso il Sirio. Udimmo allora una violenta esplosione, le caldaie erano scoppiate. Poco dopo vedemmo dei cadaveri sulle onde, nello stesso tempo delle grida disperate che chiamavano soccorso giungevano alle nostre orecchie». (...) «Il fischio della sirena e i viaggiatori chiamavano disperatamente aiuto» scriverà l' ingegner Maggi. «L' acqua, dopo avere invaso le cabine di prima classe, penetrò nel corridoio a destra e invase completamente lo spazio intorno al boccaporto di poppa e il corridoio a destra delle macchine nel quale stavano ammucchiati molte donne e bambini che, sommersi, furono trattenuti sotto il soffitto e non poterono essere soccorsi. Subito dopo l' urto, il basso personale di bordo e di macchina riuscì a gettare in mare una delle zattere che si trovavano a poppa, sopraccoperta e si allontanò col terzo ufficiale, Baglio. (...) Una vergogna. Resa ancora più evidente dal fatto che, stando alle liste dei morti, tutti i graduati a partire dal capitano risultavano essersi messi in salvo. (...) Sedici giorni ci avrebbe messo, il Sirio, ad affondare del tutto. Sedici giorni. (...) Avrebbero potuto salvarsi tutti. Invece fu l' inferno». (...) «Nella suprema, spietata lotta per la vita chi ha perduto ha perduto. E pace ai vinti. Ma non tutti i vincitori potranno gioire serenamente, in quanto molti, forse troppi, avrebbero a buon punto adottata la massima del pensiero egoista: mors tua, vita mea» denuncerà ferito nell' amor patrio il Corriere, palesando il sentimento di sconcerto, indignazione, delusione per quegli atti che disonoravano l' Italia e gli italiani. Come negare ciò che scriveva «la stampa estera e specialmente la stampa inglese» e cioè che si erano visti «atti di brutale ferocia e lotte a colpi di coltello per la salvezza della vita a prezzo della vita dei più deboli»? (...) La famiglia di Felice Serafini venne spazzata via. (...) Tornato ad Arzignano coi due bimbi sopravvissuti, Felice Serafini venne consigliato da amici di far causa alla Navigazione Generale Italiana. Si trovò un avvocato e presentò una memoria denunciando come a Genova si fossero rifiutati di riconoscergli qualsiasi indennizzo fatte salve 445 lire corrispondenti al costo di 3 biglietti: il suo e quelli dei 2 figli rimasti vivi. (...) La compagnia di navigazione fece di tutto per non risarcire il poveretto. E dall' atto dell' avvocato Pietro Giuriolo si scopre che ricorse a un trucco indecente: dichiarò formalmente l' abbandono della nave solo due giorni dopo il disastro, quando ancora il vapore emergeva per una metà e poteva sulla carta essere recuperato. Insomma: per 2 giorni finse che il bastimento potesse ancora navigare e fosse stato abbandonato immotivatamente dai passeggeri. Tanto che allo stesso Serafini, come a tutti gli scampati, notificò «l' atto di abbandono» quasi che l' uomo se ne fosse andato di sua spontanea volontà rompendo, ed ecco il rimborso dei biglietti, il contratto di viaggio verso il Rio Grande do Sul. Dall' inchiesta e dalle polemiche sui giornali, si legge nel saggio «Responsabilità marittime del comandante Giovanni Roncagli» che pure è indulgente con gli ufficiali e scrive che se il Sirio restò a galla tanti giorni «colla terribile spada confitta nel ventre» significa che non era poi «una vecchia carcassa» ma «un vecchio gagliardo», venne fuori di tutto. Che c' era stato «indiscutibilmente un errore di rotta». Che come quel vapore erano «vecchie o decrepite» 72 delle 102 navi della NGI. Che la stessa compagnia incassava da anni dallo Stato, per portare gli emigranti, aiuti e sovvenzioni per 9 milioni e 300 mila lire l' anno pari a un terzo (!) del suo capitale e nonostante questo aveva «trascurato in modo deplorevole la rinnovazione del proprio materiale natante». Che a bordo c' erano 8 scialuppe più 2 zattere di salvataggio che avrebbero potuto ospitare al massimo «la metà o poco più della gente imbarcata». Qui di seguito pubblichiamo un brano tratto dal primo libro della serie, Odissee, di Gian Antonio Stella. Narra il naufragio davanti alle coste spagnole di Cartagena del «Sirio», diretto in America. Era il 4 agosto 1906, quando la nave si schiantò a tutta velocità su uno scoglio a tre metri di profondità. I danni furono gravissimi, ma l' affondamento sarebbe avvenuto solo 16 giorni dopo. Avrebbero potuto salvarsi tutti. L' evacuazione, tuttavia, fu così caotica che alla fine il bilancio, stilato dai Lloyd' s, fu apocalittico: 292 morti. In realtà, si pensa che le vittime siano state ancora di più: tra le 440 e le 500. In maggioranza italiani partiti da Genova per cercare fortuna in Argentina e Brasile.
Stella Gian Antonio
Pagina 18
(25 aprile 2004) - Corriere della Sera
fonte:http://archiviostorico.corriere.it/2004/aprile/25/tragedia_del_Sirio_contro_gli_co_9_040425058.shtml
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