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martedì 12 gennaio 2010

Le denunce....Quando lo “schiavo” chiede Giustizia...



di Sandra Amurri

“Oportet ut scandala eveniant”, recita la saggezza latina: “Conviene che gli scandali avvengano”. E scoperchino le contraddizioni di un governo che promette alla regione Calabria fondi per l’emergenza abitativa di oltre duemila braccianti immigrati clandestini che ogni anno arrivano nella Piana di Gioia Tauro per la raccolta delle arance e contemporaneamente approva leggi che prevedono il carcere per i clandestini e per chi affitta loro case. Poi quando lo scandalo è scoppiato li porta a marcire nei luoghi senza vita che si chiamano Cpt pagati dallo Stato quando potrebbe fornirli di documenti con i quali potrebbero essere messi in regola e provvedere al proprio sostentamento. Invece per saziare le richieste xenofobe della Lega alimenta il consenso politico attraverso la schizofrenica spirale della repressione e dell’assistenzialismo. Una spirale che soffoca tutti i respiri di solidarietà e i sentimenti di accoglienza che pure esistono in una terra come la Calabria che conosce l’odore agre della emigrazione per averlo sentito sulla propria pelle.

Così a Rosarno è scoppiato lo scandalo dell’apartheid all’italiana, della moderna segregazione razziale e per le strade è partita la caccia all’ivoriano, al senegalese: auto ma anche trattori a gomme lanciati a tutta velocità contro questi poveri cristi. Un’auto con alla guida un pregiudicato, finito in carcere per aver ucciso la fidanzata nel Capodanno del 2008 e poi inspiegabilmente tornato libero, ha cercato di investire un extracomunitario
. Il 12 dicembre del 2008 la Procura di Palmi ha arrestato per tentato omicidio un uomo vicino alle cosche che vessava gli immigrati pretendendo una percentuale della loro misera paga. Di fronte all’ennesimo rifiuto ha impugnato la pistola ferendone due. Nel gennaio del 2009 è stato arrestato un imprenditore agricolo per sfruttamento degli immigrati. A maggio 2009 sono stati arrestati tre imprenditori agricoli di Rosarno con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù. Non sono racconti di fantasia ma solo alcuni dei fatti che emergono dalle inchieste della Procura di Palmi che i signori ministri dovrebbero conoscere. Tutte inchieste nate da denunce di immigrati anche clandestini. Un bisogno di giustizia non riconosciuto a chi è schiavo per definizione. A chi per un intero giorno è stato oggetto di un vero e proprio tiro al piccione praticato dai finestrini aperti delle auto in corsa da dove spuntavano fucili a pallettoni o pistole vere. Ora che molti sono stati portati nei Cpt e altri allontanati, resta da capire di cosa sarà fatta domani la manodopera nei campi.

“Chi resterà piegato per terra per ore con la morte nel cuore ad asciugare il sudore della pelle in cambio di pochi euro senza diritti?” Se lo chiede don Pino De Masi, vicario del vescovo, parroco di Polistena, referente di Libera in Calabria. Sentinella instancabile di una Chiesa che resiste al richiamo del potere e si sporca le mani per dare vita al Vangelo. Don Pino non si rassegna alla neutralità di fronte all’ingiustizia che vuol dire scegliere di stare dalla parte
dell’oppressore per dirla con Desmond Tutu, il vescovo sudafricano premio Nobel per la Pace. A quel silenzio di piombo seguito a Rizziconi all’uccisione di Francesco Maria Inzitari, 18 anni, giustiziato con dieci colpi di pistola per vendetta mafiosa. Fatica senza sosta tra i giovani del luogo affinchè imparino a ribellarsi, a dire a voce alta da che parte stanno, a spazzare via quella coltre di cenere lasciata dall’omertà che tutto copre e tutto alimenta. Ad insegnare che insieme si vince, che con la denuncia si vince, che con la forza delle proprie idee si vince anche quando si perde. Che con la vigliaccheria, la paura, l’ipocrisia, si perde anche quando si vince.

“Sono amareggiato, triste come non lo sono mai stato” ci confida don Pino al termine della celebrazione della Santa Messa “ho
visto la disperazione stampata negli occhi di questi fratelli mentre li aiutavamo a salire sui pulmann per essere trasferiti al sicuro da qui. Ho toccato con mano la reazione violenta razzista della nostra gente. Per fortuna non la maggioranza che si è messa al servizio della ’Ndrangheta contro gli immigrati” E per rispondere alla domanda, forse, retorica ma obbligatoria se ha paura sceglie le parole di Paolo Borsellino: “Dobbiamo avere tutti più coraggio invece di parlare di paura” e aggiunge: “Trasformare il bisogno di cambiamento con l’impegno del cambiamento”. Mentre il governo che con le parole di Maroni denuncia un’eccessiva tolleranza nei confronti degli immigrati resta a Roma, lontano da qui, in altre faccende affaccendato ben più urgenti perché personali. (Il Fatto Quotidiano del 10 Gen. 2010)




fonte: (Il Fatto Quotidiano del 10 Gen. 2010)


La deportazione


11 gennaio 2010

Dopo la caccia all’uomo, centinaia di immigrati trasferiti dalla città. E i caporali si riorganizzano

Il terrore lo leggi negli occhi di quelle due "prede" che cercano disperatamente di nascondersi. Spuntano sulle facce di due "negri" accovacciati dietro una volante della polizia che li ha "salvati" mentre vagavano per le campagne.

L'auto è ferma. Davanti, a pochi metri, ci sono le barricate dei bianchi. I "bravi ragazzi" di Rosarno, i vecchi, le donne che davanti alle tv recitano l'esasperazione. Urlano e le loro parole si sentono anche dentro l'auto. "Unn'è, unnu cazzu è sta mafia? I negri se ne devono andare, basta... E basta pure con questi giornali di merda che ci chiamano razzisti". Applausi, grida. E la paura dei poliziotti. "Qui ci linciano" sussurra uno di loro. Scende dalla macchina col manganello in mano per farsi spazio, il suo collega inverte la marcia. I ragazzi neri seduti dietro sono ormai sprofondati sotto i sedili.

La volante sfreccia e va via. Hanno paura i disperati di Rosarno, gli schiavi delle arance che hanno trasformato la loro ribellione in una violenza cieca che ora i bianchi esibiscono per giustificare tutto: barricate, gambizzazioni, caccia al nero topaia per topaia, casolare per casolare.

"Non è più come una volta, ve ne dovete andare che qui vi ammazzano". Davanti alla fabbrica dell'ex Opera Sila, monumento ai mille fallimenti della storia industriale della Calabria don Pino De Masi, prete e animatore di Libera, cerca di convincere i "negri" a salvarsi. Ci sono i pullman della prefettura che aspettano. Li porteranno a Bari, a Crotone, in Sicilia. Dovunque ma lontano dalla città nemica.

"Prete io non posso andare via, il mio padrone mi deve dare ancora i soldi". La paga dello sfruttamento, quei 20 euro al giorno che gli schiavi delle arance percepivano per raccogliere gli agrumi della Piana. Il prete è come un naufrago in mezzo al mare in tempesta, si fa dire il nome del "padrone", si attacca al cellulare e chiama. Rispondono in pochi. I negri vanno via, e se si può risparmiare anche quei quattro centesimi di salario va bene così.

Qualcuno non se la sente di venire davanti al ghetto, troppa polizia, troppe telecamere. E allora don Pino si incarica di raccogliere lui il salario della vergogna. Va avanti e indietro, poi torna e distribuisce quella miseria. Hassan, giovane rifugiato politico del Darfur: "Il mio padrone si chiama Rocco, deve darmi 600 euro, ho il numero, lo chiamo". Il cellulare squilla a vuoto. Hassan ha gli occhi gonfi di lacrime e le tasche vuote. Raccoglie i suoi stracci in un sacchetto nero della monnezza e sale sul pullman. La rabbia gli devasta il cuore, ma meglio l'umiliazione della miseria che finire sprangati. O impallinati dalle ronde. A uno dei ragazzi feriti all'alba del giovedì della vergogna hanno devastato l'inguine con cinquanta pallini da caccia.

A San Ferdinando hanno tentato di dar fuoco a un casolare isolato abitato dagli schiavi. "Sono arrivati con due macchine. Alcuni bianchi sono scesi con le taniche di benzina, altri avevano le spranghe in mano". Sul posto ci sono i vigili del fuoco e Laura Boldrini, dell'Unhcr. "Ormai è caccia all'uomo, come si fa a controllare tutti i casolari sparsi?". Chi può va via anche in macchina. Carrette sgangherate con targhe russe o ucraine. "Sono i caporali", dice a mezza voce uno dei migranti.

"A loro davo cinque euro al giorno per farmi portare in campagna". Sono vestiti meglio degli altri, hanno in tasca un paio di cellulari. Non si fanno inquadrare dalle telecamere. Sono l'élite della disperazione. Pasquale, invece, è uno dei "padroni". Si fa coraggio e viene a consegnare i soldi che deve. "Ma quale sfruttamento? Li pagavamo a cassetta. Più raccoglievano e più guadagnavano. I mandarini li pagano 20 centesimi al chilo. Come faccio a dare 40 euro al giorno a un bracciante regolare?".

Ci sono le telecamere e il signor Pasquale abbraccia una coppia di neri. Padrone e schiavi. Come fratelli. Vanno via i neri di Rosarno, i clandestini e quelli che in tasca hanno un permesso di soggiorno o lo status di rifugiato. "Molti di loro", spiega un volontario, "vengono dal nord, prima della crisi lavoravano in fabbrica, poi sono stati respinti all'inferno". E sono diventati braccianti agricoli, pronti a sostituire i bianchi. Non perché a Rosarno e nella Piana non esistano braccianti bianchi, ci sono, molti lavorano la terra, altri (1.500 almeno) sono "fittizi": hanno tutte le carte in regola per prendere i sussidi dell'Inps, disoccupazione compresa, ma la campagna non la vedono mai. I più giovani aspettano. E ora sono a fare i blocchi.

Vanno via i negri che non sanno di sud e della sua particolare economia fatta di ricchezza e miseria, di eccellenza e arte di arrangiarsi, di lavoro vero e di assistenza, di sfruttamento e anche di solidarietà. E che consente di guadagnare sulle arance anche quando si lasciano a marcire sulle piante.

È storia di due anni fa, quando scoppiò lo scandalo dei contributi dell'Unione europea per il ritiro della produzione degli agrumi in esubero. Un business da 45 milioni di euro. La centrale operativa del grande imbroglio era Rosarno, qui c'erano aziende che più che staccare arance dalle piante producevano fatture. False. Gli "onesti" agricoltori della Piana lucravano sulla sovrapproduzione e sulla trasformazione degli agrumi in eccesso in succhi da esportare. In Francia e Spagna.

"Ma ci siamo resi conto – ricorda Elizabeth Sperber, funzionaria dell'Olaf, l'ufficio antifrodi della Ue – che le aziende straniere nominate per ottenere i fondi o non esistevano o non avevano mai visto una arancia trasformata". Un meccanismo oliato. Imprenditori, funzionari pubblici, politici della Margherita e di Forza Italia: questo il teatrino dell'imbroglio. Vanno via i disperati dell'ex Opera Sila. Rosarno addio. Addio alla sua brava gente che non lascia i blocchi e le barricate. "Perché noi non siamo razzisti, ma i negri se ne devono andare".

Da Il Fatto Quotidiano del 10 gennaio

fonte:http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2416088&yy=2010&mm=01&dd=11&title=la_deportazione


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