L'ex governatore del Lazio due anni dopo si racconta. Lo scandalo, le dimissioni, la solitudine. "Ho sbagliato per fragilità, chiedo scusa. Un uomo pubblico deve controllare le sue debolezze". E poi: "Non ero drogato né omosessuale. Ma ricattabile sì. Perché i trans? Sono donne all'ennesima potenza, rassicuranti"
NEL CORSO di questa intervista, iniziata la sera del primo turno delle amministrative di maggio con le proiezioni che continuamente irrompevano dai cellulari e finita ad agosto a Monterano, borgo abbandonato dove è nata una quercia dentro una chiesa disegnata dal Bernini, Piero Marrazzo ha detto ventiquattro volte "perché io sono il figlio di Joe Marrazzo".
L'ultima volta - era il giorno del congedo di Paolo Ruffini dall'azienda - lo ha detto a proposito della Rai: "Perché io sono entrato per la prima volta alla Rai da bambino per mano a mio padre". Nei primi due incontri, segnati dalla sua estrema diffidenza e in definitiva dal tentativo reciproco di capire se saremmo riusciti a parlare della "cosa", ha raccontato solo della sua famiglia.
Del padre, del padre e poi ancora del padre, per ore. Della madre americana, la cui vita è un romanzo. Delle figlie ragazze, i loro studi. Con grandissima prudenza della moglie Roberta, "certo che la amo ancora, come sempre". In ultimo della loro figlia bambina. Il secondo incontro è finito così, con una lunga pausa alla domanda "come ha raccontato quello che è successo a sua figlia di dieci anni?". Dopo un paio di minuti ha risposto: "Le ho detto che papà è andato alla festa sbagliata". Poi due mesi di silenzio, come se quella frase fosse stato tutto quel che c'era da dire.
Al suo ritorno da un viaggio in Armenia - ha ricominciato a girare documentari per la Rai - ci siamo incontrati di nuovo. Grotta romana di Stigliano, il luogo dove i soldati feriti andavano a recuperare le forze e a curarsi. Catacombe da cui si esce risorti. "Magari funziona", sorride. Una settimana prima otto persone, tra cui tre carabinieri, erano state rinviate a giudizio per tentata estorsione ai suoi danni.
Soddisfatto?
"Come potrei essere soddisfatto? Sono due anni che vivo solo, che non parlo di questo con nessuno, che provo a ritrovare il bandolo della vita. Sono il figlio di Joe Marrazzo, ce la farò. Ce l'ho fatta già. Ma la soddisfazione, mi creda, in questa storia non è contemplata".
Un paio d'ore più tardi ne abbiamo parlato. Avrei solo sei o sette domande, gli ho detto. Cos'è successo davvero quella sera, perché, cosa non si perdona, a chi attribuisce le responsabilità, cosa le è successo nella vita politica e privata in quei mesi, come pensa il futuro, se la politica la tenta ancora o se è una storia finita. Va bene? "Va bene. Ma solo perché in cima o in coda a queste domande c'è una sola cosa che sento di dover dire. Pubblicamente, alle persone che si sono fidate di me".
Che cosa?
"Che ho sbagliato. Ho fatto un errore. Di questo errore voglio chiedere scusa. Ho sbagliato, scusatemi. Ecco. Solo questo".
Sono passati più di due anni da quel giorno. L'errore è stato andare in via Gradoli, andarci con l'auto di servizio, assumere droga, fidarsi della persona sbagliata, non aver capito, non averlo detto a chi avrebbe potuto, non aver denunciato il ricatto? Di quale errore parla?
"Un errore più grande di tutti questi. Una mia fragilità di fondo, un bisogno privato e così difficile da spiegare, una mia debolezza. Un uomo che assume un incarico pubblico non può avere debolezze. Le deve controllare. Per questo mi sono dimesso, per quanto fossi vittima di un reato come oggi quei rinvii a giudizio dicono. Vittima, non colpevole. Ma l'aspetto giudiziario è secondario: so di non aver commesso reati, di non aver violato alcuna legge. Umanamente però, nei confronti della mia famiglia, e politicamente, verso i miei elettori e la comunità che governavo, ho sbagliato. Così mi sono dimesso".
È andato a far visita a una persona per motivi privati con l'auto di servizio.
"È vero. È stata in molti anni la prima volta che è successo. Avevo sempre usato la mia macchina. Quel giorno ero confuso, stanco, ho avuto un impulso di andare lì subito. Un impulso, ecco un errore grave. C'erano anche ragioni di sicurezza: non avrei mai dovuto muovermi da solo - secondo le regole - e ogni volta che lo facevo era complicatissimo. Quel giorno non ho avuto l'energia di allestire un meccanismo complicato. Ero stanco, volevo andare lì e dimenticare il resto. Ho fatto parcheggiare lontano, ma certo questo non scusa. È stata la prima volta, e naturalmente l'ultima".
C'era della droga nella stanza.
"Non faccio uso di droghe. Mi sarà successo tre o quattro volte nella vita, a distanza di molti anni. Da ragazzo, un paio. Un paio da adulto. Sono pronto a fare l'analisi del capello per dimostrarlo. So che non è un argomento, ma sono certo che moltissimi "insospettabili", anche tra gli attuali miei censori, non potrebbero dire altrettanto. Quel giorno è successo: anche in questo ho sbagliato. Penso al messaggio devastante che ho mandato, soprattutto ai più giovani".
Vedeva abitualmente quella persona? Era come si è scritto "la sua fidanzata"?
"Assolutamente no. Per anni non ho visto nessuno. Mi era capitato in passato di avere rapporti con prostitute, come a volte agli uomini accade - specie se oberati dal dovere di essere all'altezza delle aspettative, pubbliche e private. Ho fatto un intenso lavoro terapeutico in questi anni per capire. Intendo capire le ragioni del mio comportamento".
Un lavoro di analisi?
"Sì. Ho provato a capire attraverso l'analisi, e la parola e l'ascolto, che cosa mi fosse davvero accaduto. Credo di dovere alla terapia molte delle risposte".
Diceva della fatica di essere all'altezza delle aspettative.
"So che non è bello da sentire e non è facile da dirsi, ma una prostituta è molto rassicurante. È una presenza accogliente che non giudica. I transessuali sono donne all'ennesima potenza, esercitano una capacità di accudimento straordinaria. Mi sono avvicinato per questo a loro. È, tra i rapporti mercenari, la relazione più riposante. Mi scuso per quel che sto dicendo, ne avverto gli aspetti moralmente condannabili, ma è così. Un riposo. Avevo bisogno di suonare a quella porta, ogni tanto, e che quella porta si aprisse".
Non c'entra l'omosessualità? Ricorda la battuta del presidente del Consiglio: almeno a me piacciono le donne? Se fosse, lo direbbe?
"La ricordo. Io non sono omosessuale. Non ne faccio un vanto, ma non lo sono. È così. Ho amato solo donne. Moltissimo, e con frequente reciprocità. Dai transessuali cercavo un sollievo legato alla loro femminilità. Il fatto che abbiano attributi maschili è irrilevante nel rapporto, almeno nel mio caso. Non importa, non c'è scambio su quel piano. È il loro comportamento, non la loro fisicità, quello che le rende desiderabili. Ma temo che ogni parola possa suonare come una giustificazione: non è quello che voglio. Quando sei padre le scelte in questo ambito, giuste o sbagliate che siano, se date in pasto alla pubblica opinione fanno male non a te ma ai tuoi figli. È questo che non mi perdonerò mai".
Lei aveva un appuntamento in via Gradoli quella sera?
"Non esattamente. Sono andato per suonare alla porta. Il desiderio è questo: suoni alla porta, e si apre. Poi riposi".
E se l'appartamento fosse stato occupato da altri?
"Sarei andato via".
Un rischio enorme.
"In effetti".
E come spiega allora la trappola. L'orchestrazione, la cocaina, il video?
"Aspettavano che arrivassi. Era successo altre volte. È un giro così. Ho saputo nei mesi successivi che quei cosiddetti rappresentanti dell'ordine erano coinvolti in molti altri episodi. Un sistema. Avrei dovuto accorgermene ma le difese, come le ho spiegato, in quei momenti sono molto basse. Non dimentichi, comunque, che nel mio caso è scattata l'azione giudiziaria solo perché io ho denunciato i fatti. È il nodo centrale: tutto è avvenuto perché ho denunciato, testimoniato. Se non l'avessi fatto nulla sarebbe emerso".
Quanto le costava tutto questo? Come poteva disporre di tanto denaro?
"Sono stato per molti anni un professionista affermato. Non ho accettato la candidatura per motivi economici, sono abituato a vivere del mio. Quello che ho guadagnato è frutto del mio lavoro, ho speso solo soldi miei".
Due persone sono morte: Brenda e il pusher Cafasso. Si è parlato della mano dei Servizi segreti. Si è detto che gli appartamenti di via Gradoli fossero controllati dai servizi.
"L'idea che mi sono fatto è che la dietrologia non aiuta mai a capire. C'è un'inchiesta in corso, bisogna aspettare. I giornali non sempre hanno aiutato la ricerca e la comprensione dei fatti, in questa vicenda. Ho letto in prima pagina sul Corriere un'intervista sulla morte di Brenda che non avevo mai rilasciato".
Quel video girava da mesi.
"Sì, ma nessuno mi stava ricattando. Io l'ho saputo dopo. Ho ricevuto una sola telefonata, non personalmente tra l'altro, molto ambigua. Non ho dato risposta. Non c'era un tentativo di estorsione in corso: se ci fosse stato, le assicuro, lo avrei denunciato mesi prima. Cosa sarebbe cambiato?".
La sua ricandidatura alla Regione, per esempio.
"Non mi sarei mai ricandidato sapendo di essere sotto ricatto. Difatti non è avvenuto".
Berlusconi l'ha avvertita dell'esistenza del video.
"Sì, era il 19 ottobre del 2009".
Cosa le ha detto? Come mai aveva il video?
"Mi ha detto che lo aveva avuto da uno dei suoi giornali a cui era stato offerto. Si è proposto di aiutarmi".
E lei cos'ha pensato? Che volesse aiutarla o tenerla sotto scacco?
"Ho pensato solo che non potevo restare in una posizione di tanta debolezza. Che comunque quella telefonata segnava uno spartiacque. Che non avrei più potuto fare il mio lavoro con la stessa autonomia, responsabilità, libertà. È stato l'inizio della mia decisione di parlare. C'è voluto un po' di tempo, dovevo prima dirlo in famiglia".
Sua moglie non sapeva niente delle sue abitudini, neppure di quelle remote, precedenti al vostro incontro?
"Lei cosa pensa?".
Immagino sia un no. Non ha mai pensato di parlargliene?
"No. Anche questo è stato un errore, di cui non so più come chiederle scusa. Ma è molto complicato, è qualcosa che riguarda davvero le nostre vite private".
Oggi siete separati.
"Purtroppo sì. Sono stati mesi molto duri per lei. Un giorno è persino uscito un articolo di giornale in cui si diceva che ricevevo una transessuale in Regione. Non era vero, non è vero, non l'ho fatto né l'avrei fatto mai. Questa persona è stata probabilmente indotta a dirlo in un tentativo orchestrato da altri di screditarmi anche sul piano della condotta pubblica. Un piano su cui so di non avere macchie. Quando sono andato in Procura a rendere dichiarazioni spontanee sull'episodio mi hanno detto: non c'è alcuna deposizione in proposito, non può dichiarare sul niente".
Lei dice di non avere macchie sul piano della conduzione della Regione. Nei mesi in cui si immaginava che a qualcuno convenisse tenerla sotto ricatto, però, si è molto parlato di alcune sue indulgenze in materia di sanità. Si diceva che Angelucci venisse in Regione in tuta da ginnastica, come fosse a casa sua la domenica, e che la trattasse da padrone.
"Veniva in tuta, è vero. Era un suo problema, non un mio problema. Lo facevo sedere, lo ascoltavo, e poi gli dicevo di no. Ho detto molti no, parlano gli atti per me. La sfido a trovare una singola carta che dimostri un mio trattamento di favore verso gli Angelucci. Non esiste. Al contrario, vedrà. Ho toccato interessi molto consistenti, e non solo a danno dell'imprenditore che lei nomina. La sanità è un territorio esteso, gli interessi sono trasversali. E poi c'è stata la tutela dell'ambiente nelle zone del basso Lazio, gli appetiti dell'edilizia sui parchi, il racket dei rifiuti. A Fondi ho commissariato il mercato ortofrutticolo inquinato dalla camorra e ho fatto saltare le speculazioni urbanistiche intorno al lago dichiarandolo "monumento naturale". Su questo ci sarebbe molto da dire. Ho scontato un isolamento ed un'ostilità assolute, dopo. Bipartisan, si dice in politica".
Si è sentito isolato anche a sinistra?
"Cambiano i caratteri, le modalità private di relazione fra persone. Alcuni sono stati più cortesi e compassionevoli, anche questo può essere umiliante, altri più sferzanti. In sostanza hanno tutti concordato sulla straordinaria opportunità che offriva la mia uscita di scena. Circolavano sondaggi che mostravano come avrei vinto comunque le elezioni. Non me ne sono curato, sono andato via. Avevo sbagliato. Che io sparissi dalla scena pubblica in quel momento - Polverini era la candidata di Fini, ricorda? - faceva comodo e piacere a molti non solo sul piano locale. In ogni caso avevo davvero altro a cui pensare. Per un mese intero sono stato in un convento".
Era Montecassino, da dove ha scritto la lettera al Papa?
"Non ho scritto al Papa. Dopo qualche giorno a Montecassino, e ancora oggi sono grato al Padre Abate e alla comunità monastica per come mi hanno accolto, ho sentito il bisogno di scrivere al cardinal Bertone per spiegare i motivi che mi avevano spinto a chiedere ospitalità. Non erano giorni facili, sapevo quale disagio potevo causare. Il senso di quella lettera era "la mia vita riparte da qui". Ricordo le parole "non posso che sedermi all'ultimo banco". A Montecassino ho ripreso in mano due libri, le confessioni di Sant'Agostino e l'autobiografia di Simenon. Il primo mi ha aiutato a capire che se hai conosciuto il male non devi più nasconderti, devi continuare a guardarlo in faccia. Nella vita di Simenon mi interessava il tema dei sensi di colpa di un padre. Ecco, sono ripartito da questo".
E oggi, che cosa pensa? Tornerebbe in politica? Se ne parla molto.
"Lo so, lo so. So che molti lo temono, anche fra gli "amici". Ho conservato un rapporto straordinario con le persone, con la gente per strada. Mi chiedono sempre, anche stasera - ha visto? - presidente, quando torna? Le persone comuni capiscono benissimo le vicende della vita, sanno distinguere, sanno giudicare e trarre le conseguenze. Sanno anche perdonare, se la colpa è una debolezza e non una frode ai loro danni. Ne sono sicuro, lo so perché lo vedo. La distanza di questa politica dalla vita reale è diventata il vero problema del paese. Hanno paura - tutti, nelle loro blindate stanze - di tutto ciò che è autentico, anche nell'errore. La popolarità, il consenso di chi non sia manovrabile, ricattabile è per loro un pericolo tremendo. È la misura del loro limite. Quelli che si comportano come se avessero un mandato a vita per rappresentare gli altri sono uno dei problemi della nostra politica. Chi governa deve essere chiamato a farlo dai cittadini ed avere la loro fiducia. Parlare di liste civiche, dei protagonismi di questo o quel personaggio in un momento di crisi come questo mi sembra fuori luogo, miope e presuntuoso insieme. Detto questo: da uomo pubblico non ci si dimette".
In che senso?
"Lasci l'incarico, ma non lasci mai il carico di responsabilità che hai agli occhi degli altri. L'ho capito a mie spese. Un giorno Enrico Mentana, col quale avevo lavorato al Tg2, mi ha detto: Piero, è inutile girarci intorno. Ogni uomo pubblico viene ricordato per un episodio e tu sai che lo scandalo è entrato nella memoria collettiva per sempre. È vero, e ho apprezzato la sua franchezza, ma sentivo che c'era qualcosa di più. C'è la vita di un uomo, la vita prima e la vita dopo. Questo la memoria collettiva, per quanto impietosa, non può cancellarlo".
Lei era ricattabile, mi pare che questo resti il punto.
"Ero ricattabile, sì. Infatti è andata com'è andata. Però vorrei che si ricordasse sempre che mi sono dimesso, che era una debolezza privata, che non ho fatto torto a nessuno se non alla mia famiglia. Che la corruzione era in chi avrebbe dovuto proteggerci e non credo alle "mele marce", non posso credere che nessuno vedesse e sapesse tra chi comandava quel nucleo criminale. Che gli interessi enormi che ho toccato sono ancora tutti lì, che le vicende umane sono state devastanti per molti e letali per alcuni. Ma io sono il figlio di Joe Marrazzo, mio padre lo voleva morto la mafia. Ho sbagliato e chiedo scusa, lo chiederei a lui prima che agli altri se fosse qui. Per il futuro vedremo, nessuno di noi può darselo da solo. Sconto il mio errore come è giusto. La vita è davanti". (15 agosto 2011)
Fonte:http://www.repubblica.it/politica/2011/08/15/news/intervista_marrazzo-20450866/?ref=HRER3-1
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