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mercoledì 6 febbraio 2008

DANIELE SCALISE: «SONO LIBERO GRAZIE A MIA FIGLIA»


«Quando ho detto a mia figlia: “Sono gay”»

Delia Vaccarello



«Mia figlia mi ha radicato nella vita, prima di lei ero depresso e angosciato, mi ha obbligato a essere un uomo libero».

Daniele Scalise, giornalista e scrittore, attraversa la sua storia nella Lettera di un padre omosessuale alla figlia (Rizzoli). Narra del padre, accenna il ritratto della madre, si sofferma sulla moglie da cui poi divorzierà, introduce il compagno, Franco. Percorre i temi che riguardano l’omosessualità e si rivolge sempre a lei, Chiara, il cui nome nel libro non compare, né vediamo i suoi occhi, verdi-marroni come quelli del padre.

«Ho voluto lasciarla fuori», dice al telefono l’autore. La figlia, oggi trentaduenne, è il suo tu interno, l’altro che ha il potere di legarlo alla vita ogni qual volta la depressione fa sentire i suoi echi, ogni qual volta le minacce di morte all’omosessualità sferrano i loro attacchi. Minacce pubbliche: «Nell’Islam vogliono farci la pelle, in Italia l’invisibilità sociale è una vera condanna a morte. Hanno tentato di annientarci con l’Aids, e tanti di noi sono morti. Noi gay abbiamo dato due prove straordinarie: superare l’emergenza Hiv e riappropriarci della genitorialità, con le tecniche di fecondazione assistita e con l’adozione dove è possibile», aggiunge. Non c’è salto tra il padre e l’intellettuale, per Scalise le risposte pubbliche alla morte sono anche le sue personali.

L’inizio è dolente, lo scrittore ripercorre gli anni che lo portarono a non eludere la propria omosessualità. Ci fa sedere a tavola con il padre, la madre, la figlioletta di appena un anno e il televisore acceso che annuncia la morte di Sandro Penna. Il padre che pur apprezza il poeta dice: «Adesso quel perverso brucerà di sicuro nel fuoco eterno». Lo scatto di Scalise è frase secca che allontana dalla pelle quelle fiamme divampate in casa: «Anche io lo sono». «Mio padre doveva sapere che quando parlava dei cosiddetti perversi, parlava anche di me. Questo non potevo permetterglielo, a costo di uscire dalla sua casa per sempre». Il padre azzarda: «C’è la bambina...». E lui nasce alla vita della dignità con una risoluzione ferma: «È una ragione di più perché sia chiaro che io non sopporterò mai né da te né da nessuno un insulto contro un omosessuale. È bene che mia figlia sappia che io non ho nulla da nascondere». Lo choc è benefico, come vagito al primo refolo d’aria. È inverno, Daniele e Chiara tornano a casa imbacuccati: «nella sera avanzata mi parve di intravedere un barlume più chiaro, un passar di macchine più sciolto. Ti tenni la manina e poi ti issai tra le mie braccia stringendoti, come dovessi proteggerti da chissà cosa», scrive l’autore.

La madre di Scalise, «donna milanese senza vezzi, pure forgiata da una religione severa», accoglie Daniele e la famiglia che lui ha formato con Franco. E gli offre un insegnamento: «Sai qual è il segreto di un matrimonio riuscito? Il compatirsi. Sì mio caro bisogna sapersi compatire. Oggi succede così di rado». Scalise ha «desiderato e molto amato le donne», per la moglie provò «innamoramento che tiene a galla», adorazione per «una giovane fresca e ridente, solida e morbida», mentre una parte di sé restava immersa nella depressione. E quando, tempo dopo, le dirà di aver fatto l’amore con un uomo la risposta sarà limpida: «Finalmente». «Evidentemente sapeva di me molte più cose di quante io stesso non ne immaginassi».

Appropriarsi dell’omosessualità serena è un percorso che prende il lento volo con Sandro Gindro e la sua psicanalisi. Scalise intreccia riflessioni e informazioni sulla nascita del movimento omosessuale, con il Fuori di Pezzana e l’Arcigay del prete del dissenso, Marco Bisceglie. Sono gli anni Ottanta e papà Scalise esplora il mondo «finalmente» da omosessuale, mentre con il terapeuta esplora se stesso e il suo «tu». «La psicanalisi mi aiutò molto anche nel gestire il rapporto con te, perché mi aveva fatto capire un concetto fondamentale: ciò che i genitori trasmettono ai figli è ciò che passa attraverso lo stomaco, non attraverso la testa». Così dinanzi a un altro televisore, quello della casa di Chiara, padre e figlia vedono la puntata di «Dinasty» in cui il nonno porta in tribunale il figlio gay, padre pure lui, per strappargli il nipote. Niente fiamme eterne questa volta. «Seguivi intensamente la vicenda, finché mi guardasti e allargando gli occhi commentasti: “scusa papà ma dove sta il problema, la carne è carne, no?”. Risi di gusto, ti abbracciai con tenerezza divertita e mi accorsi che ne sapevi una più del diavolo».

L’adolescenza di Chiara segna il primo impatto con il mondo. La soluzione per il conflitto a scuola tra i silenzi e il bisogno di definire liberamente la propria famiglia viene trovata in stile scalisiano. In classe si parla di omosessualità e un ragazzo sbotta: «Vorrei vedere cosa succederebbe se aveste un omosessuale in casa». Chiara si alza: «Te lo posso dire io cosa succede, visto che in casa ne uno: mio padre». Dopo di lei un compagno svela la propria omosessualità. L’effetto è liberatorio. Scalise gode: «Mi piaceva che tu avessi ereditato da me la passione per la verità al limite della provocazione». L’anno successivo nel corso di una occupazione Chiara chiede al padre di tenere una lezione sull’omosessualità: «Ne sarei fiera». Lui accetta timoroso dinanzi al pubblico di giovanissimi. Inizia con il tono da prof. Ma quando chiede se ci sono domande la raffica è assicurata: «Quando hai scoperto di essere omosessuale? Ti fanno schifo le donne? Hai mai provato vergogna?». Diventa per quei ragazzi affamati di sincerità un punto di riferimento. Anche di giovani parla Scalise nella lettera che si muta in libello per il continuo susseguirsi di dimensioni pubbliche a ondate, annodate dai «te lo ricorderai», dai «tu conosci bene»... Cita i nostri adolescenti morti, i casi di Matteo suicida a Torino e di Matthew assassinato dagli omofobi americani. Il tema dell’adolescenza è giro di boa. Dopo, nel libro, arrivano le tematiche scottanti dell’oggi.

Arriva la rabbia freddaper la Chiesa, per le ipocrisie sull’omosessualità che ben conosce e guarda con odio. Scalise cita un’indagine secretata e interna per la quale «il 72 per cento del clero maschile si definisce o è definibile come omosessuale». Repressione sessuale legata dall’autore allo scandalo dei preti pedofili in America che conta oltre diecimila vittime. «Senza giustificare i predatori dell’infanzia, è chiaro che le pulsioni represse e condannate appena ne hanno la possibilità esplodono nelle maniere più inconsulte». La rabbia di Scalise divampa contro gli stati che mettono a morte i gay, Iran in prima fila. E si scaglia sui falsi miti della sinistra che hanno fatto esaltare a tante menti una Cuba luogo di sevizie e persecuzioni ai danni degli omosex. Poi parla di nuove famiglie, dove l’unico cardine è l’amore che però attende da noi riconoscibilità sociale. E ci porta per mano nel Parlamento di Zapatero quando viene varata la legge sui matrimoni gay. Qui Scalise, con una piroetta retorica, inverte i suoi termini di fondo: vita e morte. E definisce, come aveva già fatto sul Foglio, la legge di Zapatero il «funerale dell’omosessualità», si riferisce a quella clandestina o eccezionale che una normativa a garanzia di parità può spazzare via. È una fine che segna l’inizio della vita vera come negli scenari classici dell’inconscio. Ma, Daniele, è un pamphlet o uno scritto d’amore? «È una lettera d’amore a mia figlia. E alla libertà».





ESSERE PADRE per Daniele Scalise ha significato radicarsi nella vita. Racconta il rapporto con i suoi genitori, con la bambina, con la moglie, con il compagno, in una lettera-pamphlet sulle ingiustizie contro i gay

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