Translate

domenica 17 maggio 2020

17 Maggio la Giornata mondiale contro l’omotransfobia.

Oggi sono 30 anni che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l'omosessualità dalla lista delle malattie mentali. La giornata mondiale contro l’omofobia la lesbofobia, la bifobia e la transfobia è una ricorrenza riconosciuta e promossa dall'Unione europea, dal Consiglio d’Europa e dalle Nazioni Unite. Viene celebrata dal 2004 il 17 maggio di ogni anno.

La scelta del giorno non è casuale: il 17 maggio 1990, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarava per la prima volta che l’omosessualità non è una malattia. Malgrado siano passati già trent'anni, la comunità LGBTQI+ è ancora vittima di atti discriminatori e la consapevolezza delle questioni sottese è davvero poco diffusa, comportando nella maggioranza della popolazione un ampio livello di confusione soprattutto nelle differenze tra identità di genere e orientamento sessuale.

Il nostro è ormai l’ultimo tra i Paesi occidentali a non prevedere una norma speciale contro l’odio omotransfobico. Nel tentativo di sopperire ad un ritardo ormai decennale, il nuovo progetto di legge contro l’omotransfobia arriverà alla Camera dei deputati a Luglio. Qualora trovasse la maggioranza dei voti in entrambe le Camere del Parlamento, la legge contro l’omotransfobia andrebbe ad estendere la legge Mancino, che già esiste e che punisce ogni forma di violenza e discriminazione per motivi razziali, religiosi o nazionali, introducendo sanzioni e pene per chi istiga a commettere oppure commette direttamente violenza e odio di tipo omotransfobico.

Quest’anno, nel rispetto delle disposizioni di legge dovute alla gestione dell’emergenza Covid19, l’azione decisa durante l’ultimo incontro nazionale “Le parole che includono” si sposta online . A tutti noi, che oggi festeggiamo il 17 maggio, il monito di non smettere mai di credere ad una società uguale nelle diversità.

"Se non ti mobiliti per difendere i diritti di qualcuno che in quel momento ne è privato, quando poi intaccheranno i tuoi, nessuno si muoverà per te. E ti ritroverai solo." (Harvey Milk)

venerdì 15 maggio 2020

Neil Gaiman vuole degli scrittori transessuali per l’adattamento televisivo di Sandman: ecco spiegato il perché.

Neil Gaiman

Netflix sta lavorando sodo per l’adattamento televisivo di Sandman, opera principale di Neil Gaiman, per la quale però l’autore ha una richiesta particolare, ossia che verranno assunti anche degli scrittori transessuali.


Non si tratta di una richiesta bizzarra da parte dell’autore, dato che uno degli episodi della graphic novel, “A Game of You” aveva tra i personaggi principali proprio una transessuale chiamato Wanda.

Con i passi avanti fatti dalla società nel corso del tempo, personaggi di questo tipo stanno finalmente ricevendo più visibilità, grazie anche a show come Pose e Orange is the New Black, ma negli anni ’90, all’epoca di A Game of You, la cosa era molto più rara, come ricorda lo stesso Gaiman:

“Avevo un sacco di amici trans, e li volevo mettere nel mio fumetto. La grande differenza però è che ora vorrei dei trans a scriverlo, non vorrei scriverlo io. All’epoca mi guardavo intorno e non c’erano questo tipo di scrittori. La mia più grande richiesta per lo showrunner di Sandman per quando arrivaremo alla stagione con A Game of You, è di avere uomini e donne transessuali tra gli scrittori. Non come consulenti, ma proprio come scrittori. Mi affascina l’idea di vedere che storie creerebbero con questi personaggi”.

Lo showrunner di cui parla Sandman è Allan Heinberg, che ha già lavorato al cinecomic DC Wonder Woman, che come ricorderete è stato un grandissimo successo ai botteghini. Lo stesso Gaiman sarà invece produttore esecutivo e scrittore della serie, per cui avrà sicuramente potere decisionale (vedremo quindi se sarà accolta la sua particolare richiesta), anche se non sarà coinvolto quanto lo è stato in Good Omens, ad esempio.

Che ne pensate della richiesta dell’autore, e cosa vi aspettate dall’adattamento di Sandman?

(Fonte: Winteriscoming.net)

“Io sono io”. La storia di Greta, giovane transgender di Ravenna, diventa un libro, scritto da sua madre


di Claudia Folli -


Uscirà all’inizio di giugno il libro “Io sono io”, edito dal Ponte Vecchio di Cesena e scritto da Cinzia Messina con la collaborazione di Francesca Viola Mazzoni. 112 pagine per parlare della storia di una famiglia normale, quella di Cinzia, la mamma, Luigi, il babbo, Paolo, il fratello e soprattutto Greta, la giovane transgender di Ravenna, la cui storia è ormai diventata celebre a livello nazionale, dopo le molteplici partecipazioni a programmi tv come Le Iene e Tagadà


Una famiglia normale, si diceva, che si è trovata però ad affrontare un passaggio considerato ancora straordinario nella nostra società: quello del coming out di Greta che ha deciso di affermare la propria identità femminile, in barba a convenzioni e opportunità, per realizzare se stessa e affermare al mondo senza paura “Io sono io”.

“L’idea del libro – spiega Cinzia, la mamma di Greta (e Paolo, il fratello gemello) – ha lo scopo di fare informazione sul tema dell’adolescenza transgender, di cui ancora si parla troppo poco. Quando io, come donna e madre, mi sono trovata a vivere questa esperienza con mia figlia, mi è stato di grande supporto poter leggere che le stesse cose appartenevano ed erano appartenute a tante altre persone. Smetti di sentirti isolata e “strana”. Quindi il primo risultato che spero di ottenere con questo libro è quello di giungere al cuore di tante altre famiglie e di dare sollievo ai loro dubbi e alle loro paure”.

“Siccome poi – prosegue Cinzia – tante persone, pur non conoscendo la nostra vita, si permettono di giudicare e di puntare il dito, dicendo cosa farebbero o cosa avrebbero fatto al posto nostro, spero che anche a loro il libro possa aiutare a considerare le cose da un altro punto di vista. Magari, che faccia venir loro la voglia di conoscerci”.

“Mettere la faccia nelle battaglie che si portano avanti, come stiamo facendo noi – commenta – ha un costo. Ma Greta sta crescendo, nascondere il suo percorso significa ignorarla e io vorrei proprio che quello che capita a lei fosse considerato normalità”.

Nel libro Cinzia racconta la loro storia familiare attraverso aneddoti ed episodi di vita, stati d’animo e anche Greta interviene, parlando di sé in prima persona. Alcune pagine sono poi state scritte dall’artista ravennate Francesca Viola Mazzoni, che ha collaborato molto anche alla stesura e revisione del testo.

“Quello con Francesca è stato un rapporto molto proficuo – ci tiene a sottolineare Cinzia -, la ringrazio davvero per essersi presa a cuore questo libro e per esservisi dedicata con passione e professionalità. Ma oltre a questo, è nata una bella amicizia”.

Completano il libro alcuni disegni realizzati da Tatiana Rodolfi, che ha curato anche l’immagine di copertina. Tatiana è una giovane disegnatrice, che ha cominciato a realizzare disegni dedicati a Greta dopo averla vista in TV. La madre ha contattato poi Cinzia e li ha invitati tutti a Mantova dove vivono, per mostrarglieli. “Anche in questo caso è nata un’amicizia. Le ho chiesto se potevamo includere i suoi disegni nel libro e ne è stata felice”.

Prima della pandemia, l’idea era quella di promuoverlo con una serie di presentazioni durante l’estate, ora è tutto sospeso. “Speriamo che più avanti sia possibile presentarlo in luoghi all’aperto, si vedrà”, conclude Cinzia.

Il libro “Io sono io”, che da giugno sarà disponibile in libreria, sarà ordinabile anche su IBS, Amazon, Mondadoristore.it, sul sito www.ilpontevecchio.it e sarà distribuito a Bologna e in Emilia da Euroservizi, mentre a livello nazionale da Libro.co.

LA PANDEMIA HA LASCIATO ANCORA PIÙ SOLA LA COMUNITÀ LGBTQ+



DI GIUSEPPE PORROVECCHIO


Il 25 marzo Amin Bonsu, presidente della Ghana Muslim Mission in Uganda, ha pubblicato un comunicato in cinque punti in cui afferma: “È importante per noi riconoscere i nostri peccati contro il mondo, in particolare gli atti più abominevoli come omosessualità, lesbismo, transgenderismo, distruzione di bacini idrici e foreste”. Prima di lui ci sono stati il Patriarca ucraino Filaret, il pastore americano Rick Wiles, il rabbino Meir Mazuz, il predicatore conservatore del Tennessee Perry Stone e molti altri. In Ungheria il dittatore Viktor Orbán, dopo un golpe istituzionale con cui ha sciolto il parlamento, ha ottenuto pieni poteri con la scusante di gestire più celermente l’emergenza sanitaria e accentrare nelle proprie mani decisioni che altrimenti avrebbero dovuto essere condivise con gli altri organi costituzionali. Una delle sue prime azioni è stata però emanare un provvedimento, fortemente voluto dal suo vice primo ministro Zsolt Semjen, che vieta la rettifica anagrafica alle persone transessuali, annullandone di fatto i diritti. Una misura che ha ben poco a che fare con il contenimento dell’epidemia. In Marocco, invece, in questi ultimi giorni molti uomini stanno subendo una violazione della privacy e un outing forzato dopo che un influencer ha svelato i nomi delle dating app gay più utilizzate e consigliato alle donne di crearsi dei profili falsi per identificare le persone omosessuali presenti nella propria città. Minacciati di pestaggio e cacciati di casa perché ritenuti responsabili del diffondersi del virus SARS-COV-2, i ragazzi gay si ritrovano costretti a restare senza dimora e sono più esposti al rischio di contagio. Inoltre, la forte militarizzazione della zona finalizzata a evitare la violazione delle restrizioni rende più facili gli abusi da parte delle forze dell’ordine. Il Marocco è infatti uno dei Paesi in cui l’omosessualità è ancora condannata con la reclusione.


Anche in Italia, la comunità LGBTQ+ sta vivendo l’inasprirsi delle tante problematiche già presenti, che con l’obbligo di isolamento dovuto alle restrizioni si sono aggravate. “In questi giorni tutte e tutti siamo chiamati a stare responsabilmente a casa. È tuttavia nostro dovere pensare a chi non ha una casa in cui stare o chi in quella stessa casa subisce discriminazione o violenza e vive in situazioni di disagio che necessita di supporto professionale e assistenza”, ha dichiarato Sebastiano Secci, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli. L’associazione ha lanciato una campagna a sostegno delle persone LGBTQ+, intensificando il servizio di supporto psicologico a distanza e la linea telefonica Rainbow Line 800 110 611.


In occasione della Giornata mondiale contro l’omofobia del 2019, la Gay Help Line 800 713 713 ha riportato alcuni dati elaborati insieme al Ministero dell’Istruzione: oltre ventimila contatti da tutta Italia tramite telefono, chat (Speakly.org), e-mail, di cui circa tremila relative a minori e più di quattrocento inerenti gravi maltrattamenti familiari segnalati tra i 12 e i 25 anni.


È proprio lo storico numero verde a lanciare l’allarme: nel periodo dal 2 all’8 aprile 2020, nei giorni del coronavirus, su un campione di circa tremila persone, il 40% degli adolescenti ha subito violenze e discriminazioni, di cui la maggior parte gravi e avvenute in famiglia. Un dato che sale al 50% per le persone transgender. Inoltre, quattro su cinque hanno affermato di sentirsi soli o depressi. Non solo è difficile per i centri antiviolenza prevedere nuovi inserimenti in mancanza di strutture per la quarantena, ma sono poche le case rifugio arcobaleno presenti sul territorio italiano. A Napoli, sono stati recuperati alloggi per donne e persone LGBTQ+ vittime di violenza domestica firmando contratti con tre strutture private, ma resta un caso sporadico. “Le associazioni si preoccuperanno di assistenza legale e psicologica per tutto il percorso. Nel frattempo, opereremo con ulteriore forza per stringere sinergie con prefettura e questura con l’obiettivo di rafforzare la collaborazione interistituzionale e dare maggiore impulso al lavoro che già si sta facendo per tutelare le vittime di violenza. Per quanto riguarda le persone LGBTQ+, stiamo lavorando per offrire accoglienza anche dopo l’emergenza, mediante una struttura comunale attrezzata allo scopo“, ha dichiarato l’assessora alle Pari opportunità di Napoli Francesca Menna.

La pandemia di COVID-19 sta avendo altre urgenti ripercussioni sulla popolazione transgender, sia dal punto di vista economico che sanitario. Costrette a vivere per strada dopo essere state ripudiate dalla famiglia o a prostituirsi perché vittime di discriminazioni sul lavoro, molte persone trans sono rimaste senza nulla su cui poter fare affidamento. Secondo un report redatto dall’associazione nazionale Arcigay, Mit – Movimento identità trans e Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, tra il 2004 e il 2014 il 45% delle persone trans ha visto respinta la propria candidatura a un colloquio di lavoro a causa della propria identità di genere e il 25% è stato addirittura licenziato. Non a caso l’ultima indagine OCSE mostra come solo il 37% degli italiani sia disposto ad accettare una persona trans come collega di lavoro.


A ciò va aggiunto come in Italia non esista alcuna tutela per le sex worker. La prostituzione non è legalmente riconosciuta e di conseguenza lavoratori e lavoratrici del sesso non possono accedere agli aiuti economici previsti dal governo. “Faccio questo lavoro da otto anni, ho cercato altri impieghi, ma nessuno mi ha mai dato una possibilità. Non ho scelta: qui non si assumono trans, siamo discriminate”, racconta a Internazionale Gabriella, una ragazza transgender. “Certo, non mi piace quello che faccio, sono stata aggredita e rapinata più volte, ma almeno prima della pandemia riuscivo a sopravvivere. Adesso, quando vado in giro, tutti mi evitano come se fossi infetta, come se noi trans fossimo automaticamente delle prostitute e quindi veicolo del virus”. A supporto Pia Covre, rappresentante del comitato civile per i diritti delle prostitute, ha lanciato il crowdfunding “Nessuna da sola!”, che al momento ha raggiunto quota 12mila euro.

In Italia, inoltre, sono pochi gli endocrinologi che trattano la disforia di genere e le strutture pubbliche che se ne occupano sono dislocate a macchia di leopardo. I continui spostamenti a cui sono costrette le persone transgender sono però diventati molto difficili in questo periodo. Il collettivo Transvisioni ha inviato una lettera co-firmata da altre associazioni nazionali al ministero della Salute per richiedere degli interventi a tutela della comunità. Le istituzioni hanno prontamente provveduto a estendere la validità dei piani e a rendere valide le ricette prescritte dai medici di base, eppure forse ci avrebbero dovuto pensare prima. A quanto pare, però, mentre vengono stilati i decreti c’è sempre qualcosa o qualcuno di cui ci si dimentica e di solito sono le minoranze e i gruppi più deboli. Ormai è arrivato il momento che la politica si faccia carico anche di quelle identità a cui finora ha faticato a prestare ascolto.
Segui Giuseppe su The Vision



La violenta campagna omofoba in atto in Marocco fa venire i brividi (dall'inizio alla fine)

Di Carlotta Sisti 

Uno dei più preoccupanti effetti perversi che in diverse parti del mondo questa pandemia sta trascinando con sé sono i colpi al cuore dei diritti civili. In mezzo al caos, infatti, proliferano le opportunità per fendere colpi, laddove il livello di sorveglianza non può che abbassarsi, schiacciato dallo tsunami del Covid-19. Lo abbiamo visto, per ben due volte, accadere in Ungheria, dove il primo ministro Viktor Orban, che si è auto proclamato pieni poteri, ha primo reso illegale il cambio di sesso, per poi bocciare la Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne. E di nuovo, lo stiamo vedendo in Libano, dove gli abusi a danno del sesso femminile hanno visto un'impennata impressionante. Oggi, purtroppo, tocca aggiungere all'elenco degli Stati immersi in una condizione di azzeramento dei diritti civili anche il Marocco, dove è in atto un'autentica caccia ai gay. Qui, dove, ricordiamo, l’omosessualità è reato, secondo l’articolo 489 del codice penale e si rischiano fino ai tre anni di reclusione e una multa di 1200 dirham, è successo che un controverso influencer transgender marocchino, trasferitasi in Turchia, di nome Sofia Taloni (usiamo il maschile perché Taloni dichiara di sentirsi un uomo gay), abbia lanciato una sorta di campagna social dal titolo "smascheriamo gli omosessuali". In una serie di streaming live su Instagram, Taloni ha chiesto ai suoi 620 mila follower di scaricare specifiche app per incontri, come Grindr o Hornet per "conoscere la vera natura delle persone che vi sono vicino". E se a monte (e a detta della protagonista, i cui profili sono stati tutti bloccati) l'idea era quella di smascherare l'ipocrisia dello stato marocchino, le conseguenze reali sono state drammatiche.




Molte persone, infatti, hanno seguito le indicazioni di Taloni e adescato on line ragazzi e uomini, per poi caricare in rete pubblicamente le loro foto. Ovviamente il risultato è stato che moltissimi sono stati messi alla gogna ed altrettanti hanno subito violenze ed abusi. Il caso più estremo è quello di uno studente, tornato in Marocco dalla Francia a causa della pandemia, che si è ucciso dopo l'umiliazione che è stato costretto a subire davanti alla sua famiglia. In un Paese dove ancora si lotta strenuamente per il diritto all'aborto, quello dell'omosessualità è uno stigma impossibile da portare. Le conseguenze, soprattutto in tempi di confinamento da coronavirus, sono terribili: ricatti, minacce, denunce, figl* cacciati di casa in piena pandemia, violenze. E certo non aiuta la militarizzazione di fatto del Paese per il contenimento della diffusione del Covid-19, anzi, le forze armate non sono altro che l'ultimo anello di una catena di abusi ed umiliazioni. Qualche tentativo di reazione c'è, ma lo scenario è dei più plumbei. Da Amsterdam, dove si è rifugiato, Mala Badi, performer transessuale, ha dato vita al movimento #QueerRevolutionMorocco, a cui hanno aderito giovani marocchini che vivono nel Paese e all’estero, per chiedere un sostanziale cambio di rotta da parte del governo e un riconoscimento se non dei diritti civili, almeno del diritto al non subire abusi. “Vogliamo misure efficaci contro la violenza, minacce, incitamenti e molestie sulla base dell’orientamento sessuale”, si legge nella petizione lanciata dagli attivisti sulla piattaforma internazionale All Out che potete firmare https://action.allout.org/it/m/6045eca6/#form-section.


Anche Human Rights Watch ha chiesto al governo marocchino di far valere il diritto alla privacy e di depenalizzare le relazioni tra persone dello stesso sesso: "Le autorità marocchine dovrebbero immediatamente intervenire per proteggere la privacy delle persone Lgbt e abrogare le leggi anti-Lgbt che possono solo alimentare questo comportamento omofobico". Adam Alaoui, attivista e reporter de Il Grande Colibrì, portale che si occupa di ciò che accade alla popolazione LGBTQI+ nel mondo, ha scritto un lungo articolo su questa vicenda, nel quale ha spiegato come "diffondendo dati personali sensibili e violando chiaramente la privacy, questa campagna di outing è estremamente grave, ma lo è ancora di più quando consideriamo le micro-realtà, dove i ragazzi non hanno la minima possibilità di esprimere la propria identità e di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale: chi lo fa, si imbatte nel rischio di un pestaggio o, nel peggiore dei casi, di un omicidio di onore. Inoltre, la fase di militarizzazione che il regno sta vivendo per evitare la violazione delle norme contro l’epidemia rende ancora più facili e invisibili gli abusi delle forze di sicurezza. Ancora non si hanno dati certi sulle conseguenze di questa caccia alle streghe: notizie sicure sulle reazioni al suo gesto sconsiderato arriveranno nelle ore e nei giorni a venire. Non saranno notizie liete, tanto che sono state già attivate varie linee telefoniche e reti di supporto. Di molte violenze, poi, non si avrà mai notizia. È essenziale che nessuno, dai siti internet agli utenti dei social, faccia nomi e cognomi di chi è stato o sarà vittima del perfido gioco di Taloni: condividere foto, video, messaggi o anche semplicemente link a pagine che mostrano foto, video e messaggi significa portare avanti la gogna mediatica in atto, anche quando lo si fa per denunciare quanto sta avvenendo. Chi dovesse trovare sulle proprie bacheche di Facebook, YouTube o Instagram questo materiale, dovrebbe avere una sola parola d’ordine: segnalare, segnalare, segnalare."

Ungheria: Orban pronto a violare i diritti dei transgender con nuova legge

di Laura Pasotti


In Ungheria è a rischio il diritto di cambiare legalmente nome e genere. Lo prevede una proposta di legge che avrebbe conseguenze drammatiche nella vita di tutti i giorni per le persone transgender. Tanto che le associazioni si sono già rivolte a Corte dei diritti dell'uomo, UE e ONU.

Il 31 marzo, in piena emergenza sanitaria da coronavirus e appena due settimane dopo l’assunzione di pieni poteri da parte del primo ministro Viktor Orbán, il governo dell’Ungheria ha presentato una proposta di legge che mette a rischio il diritto delle persone trans di cambiare legalmente nome e genere.


La proposta, prevista all'articolo 33 di un decreto “omnibus” che mira a emendare diverse norme, prevede di sostituire il termine “sesso” sulle carte di identità con la dicitura “sesso alla nascita”, stabilendo che questo non possa essere modificato.

Già al centro di un dibattito generale in parlamento, la proposta è stata discussa dal Comitato parlamentare sulla giustizia e il voto finale è atteso tra il 18 e il 21 maggio. «Se la proposta diventerà legge, lo Stato ungherese riconoscerà solo il sesso biologico registrato all'anagrafe e non fornirà alle persone trans alcun documento che ne rifletta l’identità di genere», afferma Barnabás Hidasi, presidente dell’associazione ungherese Transvanilla che dal 2011 si occupa di consulenza, assistenza e sostegno alla comunità trans nel Paese.

Attualmente l’Ungheria non ha una legislazione in merito, ma a partire dal 2004 è stata adottata una procedura amministrativa che, dopo una diagnosi di salute mentale e il parere di ginecologo o urologo, consentiva di cambiare legalmente nome e genere, anche senza interventi chirurgici.

«Questa procedura ha funzionato molto bene nel passato ma dal 2018 è stata bloccata proprio per la mancanza di una legislazione in materia», spiega Hidasi. Con la conseguenza che molte persone trans non sono più riuscite a modificare il proprio nome e genere: nell'aprile 2019 Transvanilla ha portato i casi di 23 persone in questa situazione davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Coronavirus, papa Francesco e la Chiesa al fianco di comunità transgender

Torvaianica. Il Pontefice invia il cardinale Krajewski, a sostegno di alcuni transessuali vittime dell’emergenza Covid. La comunità trans di Torvaianica, infatti, ha chiesto l’aiuto del Papa affinchè il suo elemosiniere recapitasse gli aiuti di cui si aveva bisogno.

Subito son giunti al santo padre i ringraziamenti della comunità: come afferma don Conocchia, parroco della Beata Vergine dell’Immacolata di Torvaianica, “Nel colmo dell’emergenza coronavirus sono arrivati in chiesa un gruppo di transessuali, quasi tutti latinoamericani. Chiedevano aiuti perché con il Covid non avevano più clienti sulla strada». Don Andrea, superato lo stupore iniziale, è stato catturato dalla solidarietà di questa comunità trans che divide le spese di affitto e si aiuta come può. E li ha aiutati sostenendoli non solo economicamente ma anche spiritualmente.

In questa «comunità trans, la voce poi si è sparsa, ora ci sono circa una ventina di persone. Arrivano per lo più dall’America Latina, vogliono molto bene a Bergoglio. Hanno anche fede. Sono rimasto commosso per l’immagine di uno di loro che si è messo a pregare in ginocchio davanti alla Vergine. Qualcuno mi ha anche chiesto di benedire oggetti cari».

Il parroco, giorno dopo giorno ha continuato a essere loro vicino: «Sono persone molto sole, le famiglie lontane. C’è una che ha iniziato a lavorare in strada a 14 anni. Da allora sono passati trent’anni».

Don Conocchia riflette anche sulla situazione generale di questo tempo di pandemia: «Come Chiesa abbiamo l’occasione con il coronavirus di tornare all’essenziale». Un concetto che allarga anche alla celebrazione delle messe ancora a porte chiuse: «Ogni mattina alle 7 abbiamo la messa del Papa. Io ai miei parrocchiani ho spiegato che è questione di vita o di morte. Che Dio e la scienza ci aiutino, quest’ultima dicendo una parola certa sul coronavirus. Poi facciamo quel che è possibile».


Addio a Aimee Stephens l'attivista che per prima ha portato i diritti transgender alla Corte Suprema USA


Aveva 59 anni e soffriva di insufficienza renale, ma questo non le aveva impedito di continuare fino all'ultimo la sua lotta per i diritti delle persone transgender. Aimee Stephens è morta ieri nella sua casa in Michigan, ma il suo caso tuttora pendente davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti potrebbe ancora fare la storia e portare a una importantissima vittoria per i diritti LGBTQA+. Stephens, infatti, è la prima persona transgender ad essere stata ascoltata dalla Corte Suprema per un caso sui i diritti civili e in gioco c'è una decisione fondamentale: se la legge federale che vieta la discriminazione sul lavoro si applichi o meno ai dipendenti transessuali. "Aimee non ha deciso di essere un'eroina e una pioniera, ma di fatto lo è stata", ha dichiarato l'ACLU in un tweet dopo la notizia della morte. "Tutti abbiamo un debito di gratitudine per il suo impegno per la giustizia e per la sua dedizione alla comunità trans".


La vicenda giudiziale in questione comincia nel 2013 quando Stephens scrive una lettera ai suoi colleghi della RG and GR Harris Funeral Home, l'impresa funebre dove lavora. "Quello che devo dirvi è molto difficile per me e sto usando tutto il coraggio che riesco a trovare. Mi sono sentita imprigionata in un corpo che non corrisponde alla mia mente, e questo mi ha causato grande disperazione e solitudine. Tornerò a lavorare come il mio vero io, Aimee Australia Stephens, in abiti da lavoro adeguati". Stephens prende quindi la decisione di cominciare a vivere a tutti gli effetti come donna prima di effettuare la transizione, ma due settimane dopo riceve una lettera di licenziamento. Il motivo? Proprio il fatto che da quel momento "si sarebbe vestita da donna pur essendo un uomo". Inizia così la battaglia legale di Aimee che fa causa al suo datore di lavoro per essere stata licenziata sulla base del suo status di transgender.


Nel 2018 arriva la prima vittoria: la Corte d'Appello degli Stati Uniti si pronuncia contro i proprietari di pompe funebri, sostenendo che le persone LGBTQ sono protette ai sensi del Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, per il quale i datori di lavoro non possono licenziare, rifiutare di assumere o altrimenti penalizzare le persone sulla base del loro sesso. A questo punto, però, si apre una questione ben più complessa che coinvolge direttamente l'intero mondo LGBTQA+: il Civil Act riguarda effettivamente anche l'orientamento sessuale e lo status di persona transgender?

Per rispondere a questa domanda, il caso di Aimee arriva davanti alla Corte Suprema (Stephens è stata sentita a Washington in ottobre, ndr) che a breve sarà chiamata a rispondere sul punto. Neanche a dirlo la posta in gioco è altissima. Nonostante alcuni recenti passi avanti, come spiega il New York Times, la discriminazione sul lavoro nei confronti dei dipendenti omosessuali e transgender è infatti ancora legale in gran parte della nazione e questa decisione potrebbe invece cambiare (finalmente) le cose. Se la Corte dovesse decidere che il titolo VII della legge sui diritti civili, si applica anche alla comunità LGBTQA+, allora milioni di lavoratori potrebbero davvero ottenere la tutela lavorativa che meritano.

La vittoria, però, è tutt'altro che scontata specie dal momento che la Corte Suprema è attualmente composta da 5 giudici conservatori e 4 liberali. Le variabili, d'altro canto, sono moltissime: non resta che aspettare il verdetto e sperare in una svolta a favore dei diritti civili. Aimee, purtroppo, non vedrà l'esito della battaglia a cui ha dedicato la vita, ma il suo spirito e la sua forza non potranno essere dimenticati. "Sono ottimista e credo in quello che sto facendo" ha dichiarato in un'intervista a The Detroit News. "Siamo tutti umani e tutti meritiamo gli stessi diritti di base. Non stiamo chiedendo niente di speciale, solo di essere trattati come le altre persone".