Transgender, sono troppi i rischi per chi vuole operarsi in Italia

MEDICINA
Liste d'attesa eterne, scarsa specializzazione, poca attenzione alle ricadute psicologiche sui pazienti. Troppo spesso nel nostro paese chi deve cambiar sesso affronta un'odissea anche in sala operatoria. Tanto che un gruppo di pazienti ha fatto causa al Sistema sanitario nazionale

di Antonio Sciotto.


Operarsi in Italia, per chi è transessuale, può essere un grosso rischio: “Molti medici non hanno sufficiente esperienza e non conoscono le tecniche più avanzate: per noi l'intervento ha aperto una vita di inferno”. La denuncia viene da un gruppo di donne che ha tentato di cambiare sesso (erano nate come uomini), oggi assistite da un avvocato, anche lei transessuale, che però per non esporsi a pericoli si è fatta operare in California, pagando di tasca propria, da una chirurga tra le più specializzate al mondo.

“Sto seguendo 13 ragazze, contro diversi ospedali italiani – spiega Alessandra Gracis, legale con sede a Conegliano, nel trevigiano – Siamo in causa per avere un risarcimento, perché gli interventi correttivi che ho già consigliato alle mie clienti di tentare in altri paesi, dagli Usa alla Thailandia, sono molto costosi e loro sono quasi prive di reddito”.

Operazioni diverse ore più lunghe del necessario, infezioni continue e fistole, la necessità di portare una sorta di dilatatore per anni, a volte anche tutta la vita: sono questi alcuni degli incredibili problemi a cui sono andate incontro le donne oggi in causa contro il nostro sistema sanitario nazionale.

Chiamati a pagare i danni il Policlinico Umberto I (4 casi) e il San Camillo (2 casi) di Roma, e diversi nosocomi di Brescia, Chieti, Pietra Ligure, Bologna. Le ragazze di Alessandra sono sì clienti, ma anche amiche, e per lei, portare avanti queste denunce, ha un valore politico: “In Italia – spiega – si fanno pochi interventi in tanti centri ospedalieri, il che non permette ai medici di specializzarsi. Dovrebbero, al contrario, come nel caso del Charing Cross Hospitaldi Londra, unico centro specialistico in Inghilterra, puntare su un solo ospedale di eccellenza. Cercheremo di farci riconoscere non soltanto il danno biologico, ma anche quello arrecato all'identità di genere, alle relazioni sociali, in base all'articolo 2 della Costituzione”.

Particolarmente grave il caso dell'Umberto I di Roma: quattro pazienti assistite da Gracis hanno denunciato penalmente l'equipe di chirurghi per “lesioni personali gravissime”, chiedendo anche l'interdizione dal ripetere lo stesso tipo di intervento in futuro. “I medici – spiega l'avvocato – hanno utilizzato una tecnica del tutto sperimentale, senza fornire informazioni adeguate: hanno ricostruito la vagina partendo da tessuto prelevato dalla bocca e poi coltivato in vitro. I risultati sono stati disastrosi, ma l'Umberto I ha continuato per almeno due anni dopo il primo intervento a utilizzare questa tecnica. Addirittura l'estate scorsa hanno pubblicato gli esiti in un articolo scientifico sul PRSJournal , la rivista dei chirurghi plastici americani, definendo l'operazione 'fattibile, sicura e vantaggiosa'”.

Gli interventi per cambiare sesso sono circa 120 l'anno in Italia, ma non esiste un registro ufficiale: il conto, empirico, viene dall' Onig , osservatorio dell'identità di genere, che sul suo sito web accorpa i dati parziali provenienti dai diversi istituti. Sono quasi tutte operazioni M to F (male to female, da uomo a donna) perché quelle F to M (da donna a uomo), in Italia sono a uno stato ancora embrionale, e chi vuole tentarle si rivolge perlopiù all'estero.


“AL LIMITE SI POTREBBE FARE SUORA”
Silvia Cimmino è una delle quattro ragazze operate all'Umberto I, tutte con risultati catastrofici, molto simili tra loro: “I medici mi hanno prospettato un intervento 'innovativo' – racconta - spiegando che avrebbero prelevato tessuto dalla bocca: avrebbero coltivato cellule staminali per creare il rivestimento della mia futura vagina, quello che di solito si ottiene rivoltando il pene. Ma non c'è stata mai un'informazione esauriente sui rischi, solo parole generiche”.

“Fu eseguito un primo intervento per creare la cavità vaginale, demolendo i miei organi maschili. Ma pochi giorni dopo mi sono venute delle infezioni, e dopo un mese e mezzo la cavità era già chiusa. Dopo il secondo intervento ho passato un mese in ospedale per un'altra infezione, e ho dovuto portare un dilatatore per 11 mesi. All'inizio mi avevano detto che questo dilatatore – una sorta di tubo in silicone riempito di soluzione fisiologica - avrei dovuto sopportarlo solo 6 mesi, ma alla fine è arrivato l'annuncio-choc: 'Dovrà portarlo tutta la vita'”.

Silvia racconta di essersi sentita come una cavia dei medici del Policlinico: “E pensare che chiedono allo Stato di finanziare queste operazioni dagli esiti disastrosi. Un continuo di infezioni, batteri e secrezioni: hanno ammesso dopo varie visite che era capitato anche ad altre ragazze”. Infine, oltre al danno, la beffa. I dottori si prendono pure gioco di lei: “'Al limite, male che vada, c'è anche l'altro buco', mi hanno detto. 'Si può sempre fare suora'. Ero sconvolta non solo dai risultati, ma anche da questo modo di trattarmi”.

“Mi hanno proposto di riprovarci prelevando la pelle addominale – conclude Silvia – Ma chi si fida più: non so se avrò il coraggio di rimettermi sotto i ferri. A volte mi sento come un eunuco: ho 28 anni e non posso vivere a pieno la mia vita”.

“RINUNCERAI ALLE RELAZIONI, MA ALMENO TI SALVI LA VITA”
Un'altra testimonianza – ma in questo caso la ragazza ci chiede l'anonimato – viene da una causa in corso con l'ospedale di Pietra Ligure. Lucia (usiamo un nome di fantasia) è stata in lista d'attesa alla Asl di Trieste per ben 7 anni: ha iniziato nel 2005 e nel 2012 le hanno telefonato per sapere se fosse ancora interessata. Alla fine ha deciso di operarsi a Santa Corona, in Liguria, perché lì avrebbe atteso meno.

Un intervento di 7 ore, e due settimane dopo a casa. Ma qui cominciano i guai: “Si manifestò una fistola, cioè un piccolo foro, che faceva riversare l'urina nella cavità vaginale, quindi si creavano continue infezioni – racconta Lucia - L'operazione era stata quella classica, usando il tessuto penile. Dopo qualche mese mi dissero che avrei dovuto portare un catetere infilato nella vescica per almeno un anno, in attesa di un nuovo intervento. Buona parte di quell'anno lo passai in ospedale, alternando nuovi interventi – in tutto una decina – con brevi periodi passati a casa. Alla fine i chirurghi mi hanno detto: non puoi tenere la fistola, dobbiamo chiudere la cavità vaginale, utilizzando tessuto preso da altre parti del corpo”.

“'Sacrifichiamo la qualità dei rapporti ma salviamo la vita', mi dissero i chirurghi. Non avevo scelta, provavo dolori massacranti e con questo catetere nella vescica non riuscivo neanche a camminare. Alla fine avevo il fisico massacrato, per i ripetuti interventi che necessitavano di tessuti da tutto il corpo: cicatrici su braccia, gambe, pancia. Tale fu lo choc che da allora non sono più tornata in Liguria, non ho il coraggio, mi viene l'ansia anche se dovesse essere solo per una vacanza”.

“Da poco mi ha visitato una specialista americana, Marci Bower: dice che qualcosa si può tentare, ma che è rischioso. Si potrebbero creare problemi nell'apparato digerente, e forare l'uretra. 'Se ti buco l'intestino – mi ha detto – poi dovrai portare un sacchetto per le feci per tutta la vita'”.

Lucia vive a Treviso: una legge regionale, la 22 del 1993, assicurerebbe alle persone transessuali venete di essere assistite e operate in Regione nei centri che la giunta avrebbe dovuto individuare entro 30 giorni, ma nessun governatore l'ha mai applicata e finanziata. “Ho scritto a Luca Zaia – dice l'avvocato Gracis – Ma non mi ha mai risposto. Mi piacerebbe incontrare con le altre ragazze il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, per far presenti tutti i limiti del nostro sistema sanitario: chiedere di investire su questo tipo di interventi, di razionalizzare il sistema, centralizzando in un unico ospedale la chirurgia e delocalizzando solo il resto”.

“ALLA FINE POTRO' FARE LA PIPI' IN PIEDI”
Alessandro Iuliano ha fatto il percorso opposto: padovano, 40 anni, ha cominciato 5 anni fa la sua transizione da donna a uomo. “Io della chirurgia italiana ho una esperienza positiva – racconta – ma perché ho saputo fermarmi a un certo punto. Al Sant'Orsola di Bologna ho fatto la mastoplastica riduttiva, per avere i pettorali maschili, e la demolizione dell'utero: ma il resto, la falloplastica, me la faranno in Belgio”.

Alessandro prima di entrare in una sala operatoria si è informato a lungo, attraverso dei forum su Internet, con ragazzi che come lui sono nati in un corpo femminile: “In Italia dicono che riescono a farti la falloplastica, ma in realtà ancora non ci sono arrivati: per quello che ho potuto vedere dalle persone con cui ho parlato, ti lasciano la vecchia uretra, quindi non chiudono completamente la vagina: un ragazzo che si è operato a Trieste mi ha detto che per mesi ha sofferto di fistole e infezioni. In Belgio al contrario ricostruiscono l'intero organo: a me hanno prelevato il tessuto da gambe e braccia. Alla fine potrò fare la pipì in piedi”.

Sembra un particolare, questo della posizione in cui si urina, ma evidentemente il problema è sentito: per molti anche questa è “identità di genere”. L'intervento di Alessandro è stato finanziato dalla sanità italiana, grazie alle nuove normative europee per cui puoi curarti in tutta l'Unione: “La mastoplastica però si erano rifiutati di finanziarmela: evidentemente il nostro Paese riconosce indirettamente che la falloplastica è meglio farla fuori. L'operazione in Belgio è costata, per differenti interventi successivi, intorno ai 45 mila euro, di cui io ho messo circa il 10% in forma di ticket”. E l'erezione? E' l'ultimo passaggio, l'intervento finale: “Si ottiene grazie a una protesi in titanio, rivestita con materiale biocompatibile, che si attiva meccani
camente”.
04 aprile 2014

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