Rouba Morcos è palestinese. Rouba Morcos è lesbica. Porta sulle sue spalle il peso di oppressioni stratificate. Rouba è tra le fondatrici di Aşwa Nisā Filastiniyyāt miliyātt (voci di donne lesbiche palestinesi) e ha dichiarato: «Avevo dimenticato la mia lingua, non sapevo come dire fare l’amore in arabo, senza che queste parole suonassero scioviniste, aggressive e aliene rispetto alla mia esperienza».
Rouba insieme a tante persone del mondo Lgbt arabo e iraniano hanno capito che ricercare i diritti è anche lavorare sul linguaggio. Le parole feriscono, umiliano e in certi casi uccidono. Rouba lo sa e per questo nelle sue lotte per l’affermazione dei diritti del mondo Lgbt ha messo il linguaggio al primo posto. L’attivista palestinese è solo una delle persone che si incontrano nella lettura di “Che genere di Islam, omosessuali, queer, transessuali tra shari’a e nuove interpretazioni” di Jolanda Guardi e Anna Vanzan (Ediesse).
Le autrici, saggiamente, non hanno voluto salire sul carrozzone di chi considera l’Islam omofobico e sono state altrettanto intelligenti da non dichiarare che invece l’Islam è tollerante o addirittura gay friendly. Si sono sottratte alla logica della tifoseria pro e contro, molto tipica di quando si parla di mondo arabo o iraniano. E ci hanno regalato un libro in cui la storia dell’omosessualità nelle società islamiche è trattata con serietà e complessità.
I testi di satira denigratori vengono analizzati dalle due autrici accanto a storie d’amore strappalacrime che la letteratura ha saputo magistralmente raccontare. Ne è un esempio infatti la storia tra il sultano Mahmud di Ghazna, conquistatore di imperi, e il suo schiavo Ayaz. Si scopre, andando avanti nella lettura, che nella poe- sia di donne per donne la cucina è più seducente di un talamo nuziale.
Ed è lì, nella cucina, che la noce moscata grattuggiata o la mandorla scorticata evocano pratiche erotiche tutte al femminile per il femminile. Ma accanto a storie e facezie ci sono momenti di pura riflessione. Guardi e Vanzan danno ampio spazio al dibattito che coinvolge chi oggi nel mondo musulmano vuole conciliare la fede con la propria identità omosessuale/transessuale partendo dalla reinterpretazione dei testi sacri. Una teologia della liberazione che lavora sul corpo e la lingua della società.
Poi in questa densa trattazione del tema non mancano certo i paradossi. La storia di Fareydûn Molkārā ha fatto scuola in questo senso. Fareydun. Un operatore televisivo iraniano, denunciava pubblicamente il suo disagio di sentirsi una donna intrappolata nel corpo di un uomo. Per questo ha chiesto pubblicamente al vate della Repubblica Islamica Khomeini di poter cambiare sesso. Khomeini si era espresso negli anni ’60 a favore di quella che veniva chiamata allora chirurgia correttiva. Fareydun quindi riesce a coronare il suo sogno e ancora oggi – pur se inquadrati in una cornice di “malattia” – i trans iraniani possono non solo cambiare sesso, ma lo fanno con un contributo finanziario dello stato.
Questo però in Iran si accompagna alla pena capitale per gli omosessuali colti o solo sospettati di atti promiscui. «Nel nostro paese non ci sono omosessuali» ha dichiarato più volte il presidente della repubblica islamica Mahmud Ahmadinejad, una frase che forse è il paradosso più grande che incontriamo nello scorrere le pagine di “Che genere di Islam”. È un libro senza risposte quello di Guardi e Vanzan, ma sul tema (anche grazie al nutrito apparato critico fatto di bibliografia, filmografia e note esplicative) è tra i più esaurienti e seri apparsi nel panorama editoriale italiano sul tema in questione.