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mercoledì 30 ottobre 2019

Pose, seconda stagione: su Netflix

Dopo il successo della prima stagione, Pose torna finalmente in Italia con i nuovi episodi. La seconda stagione, arrivata a qualche mese di differita dalla programmazione statunitense, per certi versi risulta ancor più d’impatto rispetto al debutto avvenuto lo scorso anno. Premiata con riconoscimenti televisivi importanti, Pose riprende a raccontare le vicende di un gruppo di transessuali e omosessuali nella New York a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del nuovo decennio, i nuovi episodi, disponibili dal 30 ottobre su Netflix.

Se nel primo anno la serie ha portato fascino in mezzo al dramma, quest’anno ci consegna una narrazione più urgente e oscura, ma senza perdere la delicatezza e la speranza.

Dopo un salto di tre anni nella storia, Pose ci porta al 1990. La strategia degli scrittori era di arrivare al momento del rilascio della canzone di grande successo di Madonna “Vogue”, che fece luce sulla comunità LGBTQ+ e dei ‘Ball’, che per anni viveva nell’ombra della periferia. Blanca (Mj Rodriguez) e i suoi figli Angel (Indya Moore), Damon (Ryan Jamaal Swain) e Papi (Angel Bismark Curiel) rimangono uniti, ma a poco a poco ciascuno si fa la propria strada, con Damon che diventa un promettente ballerino e Angel una modello internazionale.


I nuovi episodi della nuova stagione di Pose continuano a raccontare le gioie e i dolori della House Evangelista, guidata da madre Blanca, interpretata da MJ Rodriguez, della casa Abundance di Elektra (Dominique Jackson), di Pray Tell (Billy Porter) e dei personaggi a loro vicini. Evitando di raccontare nei minimi dettagli la trama di questa seconda stagione della serie tv creata da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals, non possiamo che esimerci dall’analizzare episodi certamente ricchi di pathos narrativo e profondamente riflessivi verso alcune importanti tematiche. I temi principali sono i medesimi della precedente razione di episodi: l’importanza della famiglia, l’orgoglio personale e la voglia di realizzarsi, la lotta ai diritti in un mondo cieco verso le minoranze.



Pose è uno degli ultimi progetti di Ryan Murphy, creatore di Glee, American Horror Story e 911, tra le altre cose. La serie TV è stata realizzata in collaborazione con i partner storici Bad Falchuk e Steven Canals. Ricordiamo inoltre che il cast di Pose possiede il maggior numero di attori LGBTQ nella storia della TV.

Fonte :https://www.netflix.com/it/title/80241986

Hunter Schafer, la star transgender della serie «Euphoria»

Dopo aver guardato la prima puntata della serie tv su Sky "Euphoria" non riuscirai più a togliertelo dalla testa. Di professione modella, Hunter è transgender, ha 20 anni ed è già finita sulle cover dei magazine più importanti del mondo, sfilando per i brand più cool e indossando gli abiti delle maisons più famose.

In Euphoria, dove interpreta sostanzialmente se stessa (fa la parte di Jules, teenager trans che fa amicizia con Rue, interpretata da Zendaya) è alla sua prima prova da attrice ma Hunter Schafer è una star di Instagram, una modella famosa, un'artista e un'attivista che avrai visto sicuramente in qualche campagna pubblicitaria di grande impatto.

Euphoria nasce da un’idea di Sam Levinson e ambisce a raccontare il mondo dell’adolescenza in maniera volutamente scandalosa e senza filtri. La protagonista è Rue Bennett, interpretata da Zendaya, ex attrice e ballerina di film e serie del mondo Disney.

“Allah Loves Equality”, essere queer in Pakistan



Ai tempi anche Il Mitte aveva supportato la campagna di crowdfunding per la realizzazione di un documentario sulla comunità queer in Pakistan, “Allah Loves Equality“, realizzato tra il 2017 e il 2018 dal regista e attivista Wajahat Abbas Kazmi.

A distanza di due anni, con un budget di 12.815 euro, il documentario ha finalmente visto la luce. Promosso dall’associazione Il Grande Colibrì e patrocinato da Amnesty International, è stato presentato per la prima volta in anteprima il 28 aprile 2019, al Lovers Film Festival di Torino.



Il documentario mostra senza filtri la storia delle persone queer in Pakistan, Paese che vede applicata una delle legislazioni più repressive in materia, soprattutto a causa della sezione 377 del codice penale.

Il regista fornisce a diversi testimoni la possibilità di raccontarsi davanti a una telecamera e molti di loro lo hanno fatto per la prima volta, con totale sincerità e grandissimo coraggio. Si alternano dunque interviste, momenti di vita vissuta e spezzoni relativi a celebri fatti di cronaca, nel tentativo di scavare una strada fuori da un inferno fatto di stupri, omicidi, delitti d’onore, ostracismo e molte altre forme di violenza subite, su base regolare, dalla comunità LGBT in Pakistan.

Particolare esposizione è data alle donne transessuali, alle quali è consentito fare solo tre cose, per vivere: mendicare, danzare o prostituirsi.
Spesso ripudiate dalle loro famiglie e respinte dalla società, lottano per sopravvivere e a causa della loro condizione sono costrette ad abbandonare la maggior parte delle loro ambizioni, dalle più complesse alle più semplici. Sono fantasmi, quando non diventano bersagli.



A questo proposito vengono mostrate le violenze atroci, e a volte letali, perpetrate ai danni delle transessuali pakistane, per ragioni che vanno dallo sfruttamento al crimine d’odio.

Un caso emblematico è quello di Alisha, attivista per i diritti delle donne transgender, colpita sei volte con un’arma da fuoco e ricoverata in un ospedale di Peshawar, dov’è stata discriminata anche dal personale medico e paramedico. Dopo essere stata collocata nel reparto maschile, isolata e vicina ai bagni, Alisha è stata trattata con ostilità e negligenza, fino alla sua morte.




Meglio non va a quelle transessuali che osano opporsi ai tentativi di sfruttamento da parte della criminalità, che vede in loro solo carne da macello.

Il documentario mostra infatti il frammento di un video diventato virale, in cui una ragazza transgender di Sialkot, una cittadina del Punjab, viene frustata da un criminale del luogo, Jajja Butt, che secondo diversi media estorceva denaro alla comunità transgender. Shanaya, la ragazza mostrata nel video, fu rapita e selvaggiamente torturata per ragioni non ancora chiarite, ma che oscillano dal crimine d’odio alla rappresaglia personale.



C’è poi Esha Chaudhry, una donna transessuale di Rawalpindi, città satellite di Islamabad, capitale del Paese. Esha ha una laurea magistrale in economia e la sua ambizione è ricoprire un ruolo imprenditoriale. Attualmente, però, non può fare altro che mendicare, perché esclusa da qualunque altro ambito lavorativo. Ha trovato un compagno che la ama, ma è costretta a vestirsi da uomo quando esce con lui, perché il loro legame non potrebbe sopravvivere al di fuori delle mura domestiche.



Meglio non va agli omosessuali maschi, costretti a nascondere il loro orientamento, spinti dalle famiglie a sposarsi, spesso nell’ambito di matrimoni combinati, vittime dei pregiudizi e della mancanza di diritti, e non solo nel loro Paese.

Emblematico in questo senso è il caso del Dottor Qasim Iqbal, considerato il padre dell’attivismo LGBT in Pakistan. Cresciuto negli Stati Uniti, assunto come ingegnere informatico dalla Microsoft per circa 8 anni, è stato infine deportato in Pakistan non appena gli è stato diagnosticato l’HIV. Il laboratorio presso il quale erano state effettuate le analisi, infatti, ha inviato una copia del referto medico sia all’ufficio immigrazione che al dipartimento di sicurezza interna e a quel punto Iqbal è stato costretto a tornare in un Paese che aveva lasciato ad appena tre anni di età.



Hannan Sidique invece è un makeup artist di successo. Ha una relazione con un altro uomo, Ali, ma ovviamente non possono stare insieme alla luce del sole. Nonostante la condizione socialmente ed economicamente privilegiata, Sidique subisce comunque uno stigma che rende difficili anche le cose più semplici, come passare una serata con il suo compagno, il quale, d’altra parte, subisce forti pressioni familiari affinché si sposi con una donna.

Il documentario sottolinea inoltre la sostanziale “invisibilità” di lesbiche e uomini trans. “Ammettere che esistano le lesbiche vorrebbe dire che le donne hanno una sessualità propria e in una società musulmana questo è inaccettabile” sottolinea Qasim Iqbal, che rivela anche il dato sconcertante che in alcune parti del Pakistan si pratichi ancora l’infibulazione. E poi aggiunge: “A volte, come attivisti per i diritti civili, aiutiamo anche diverse lesbiche e uomini trans a lasciare il Paese, perché vivono una condizione di serio pericolo”.



Eppure la cultura musulmana non è stata sempre così.

Ai tempi delle monarchie islamiche, per esempio, le donne transessuali e gli omosessuali effeminati venivano definiti mukhannat e la loro condizione era assolutamente riconosciuta, all’interno dell’establishment. Ne parla, tra gli altri, lo studioso musulmano dell’XI secolo Ibn ‘Abd al-Barr.

Tra i Moghul, inoltre, le persone transgender, denominate khawjasara, godevano di una posizione privilegiata ed erano considerate con tale rispetto da svolgere, a volte, anche la funzione di consigliere di principi e principesse.

Il poeta arabo Abū Nuwās, inoltre, vissuto nell’VIII secolo, durante il califfato abbaside, componeva versi esplicitamente omoerotici e fu considerato uno dei modelli più imitati dalla poesia araba successiva. Il crossdressing era celebrato dalla società e i governanti dell’epoca, inoltre, erano decisamente aperti riguardo alla alla sessualità.

Il poeta arabo Abū Nuwās

L’invasione inglese, con l’introduzione di principi cristiani avversi alla libertà sessuale, e l’interpretazione sempre più radicale del pensiero islamico, innescò un cambiamento drastico che ebbe il suo spartiacque definitivo l’anno dell’indipendenza del Pakistan, il 1947.
A partire da quella data, la comunità LGBT cominciò infatti ad affrontare sempre maggiori difficoltà e orribili forme di mortificazione sociale.


Pakistan

Le khawjasara cercarono di proteggersi aggregandosi in gruppi e preservando in questo modo, per i secoli a venire, la loro identità e i loro valori. Questa cultura, oggi denominata Khawajha Sira, crea famiglie di fatto in cui le persone transgender trovano l’amore che non hanno sperimentato nelle famiglie di origine. Attualmente, il 90% delle transgender pakistane appartiene al sistema Khawajha Sira, per loro estremamente importante.

Ci sono anche diverse associazioni locali che lavorano giorno e notte, con coraggio e determinazione, per migliorare le cose. È stato grazie alle loro segnalazioni e al clamore mediatico creato da questi attivisti, ad esempio, che sia Jajja Butt che l’uomo accusato di aver ucciso l’attivista transessuale Alisha sono attualmente in carcere.




Per questo e per molto altro è importante condividere il messaggio di Wajahat Abbas Kazmi, che sta cercando di far conoscere storie di disperazione e resistenza che purtroppo restano spesso inascoltate.
La causa della scarsa eco di queste vicende al di fuori del Pakistan, risiede nella sostanziale indifferenza dell’occidente verso tutto ciò che non sia la diretta emanazione dei suoi valori. Ma quando un regista pakistano testardo punta all’attenzione internazionale, con l’aiuto di ogni possibile media cge voglia fare la differenza, le cose cambiano.

Le persone queer del Pakistan, intanto, continuano a combattere e anche grazie a chi, nel mondo, sceglie di prestare orecchio alle loro richieste, conquistano faticosamente nuovi spazi e prospettive per il futuro.
Dolcissimo il sorriso di Bubbli Malik, attivista e fondatrice di un’associazione per i diritti delle persone transgender in Pakistan, Wajood, che in urdu significa “esistenza”.
Malik ha dedicato 21 anni della sua vita alla causa e una parte della sua casa è diventata un punto di riferimento per la comunità transessuale locale.

Si dichiara felice di aver vissuto senza ipocrisie, “con gli occhi pieni di lacrime, ma con il cuore sempre sorridente“.

NATI 2 VOLTE - Anteprima il 6 novembre a Torino

È possibile raccontare una storia transgender in maniera leggera e profonda, con quelli che si chiamano, per consuetudine, i toni della commedia? La sfida di Nati 2 volte, al cinema dal prossimo 28 novembre, è tutta qui: il gioco degli equivoci e quello dei pregiudizi, l’eterna scelta tra la grande città e la provincia, il conflitto interiore e quello, inevitabile, legato alle relazioni con le persone che amiamo, la scelta, spesso dolorosa, di diventare finalmente uomini, o donne, o semplicemente adulti.

Diretto da Pierluigi Di Lallo (al suo secondo film) e scritto assieme a Riccardo Graziosi e Francesco Colangelo, Nati 2 volte racconta la storia di Teresa, adolescente che si sente doppiamente rinchiusa: in un corpo che non è il suo e in un paese dove vige il pregiudizio e la mentalità ristretta della provincia.

La pellicola, con il patrocinio dell’Arcigay, verrà proiettata il 6 novembre 2019 alle ore 21:00 al Cinema Massimo di Torino in anteprima nazionale in collaborazione con il Lovers Film Festival di Torino, il più importante festival cinematografico dedicato ai film LGBTQI+, da quest’anno diretto da Vladimir Luxuria. Saranno presenti il regista, Luigi Di Lallo, i protagonisti Fabio Troiano, Euridice Axen, l’attrice transgender Vittoria Schisano, la direttrice del Festival Vladimir Luxuria e il direttore del Museo Nazionale del Cinema Domenico De Gaetano.

“Questa importante anteprima – sottolinea Vladimir Luxuria, direttrice del Lovers Film Festival – inaugura una serie di appuntamenti che il Lovers Film Festival farà nei prossimi mesi sul territorio cittadino, grazie alla disponibilità e alla collaborazione di numerosi enti e associazioni. I temi trattati vanno dal cinema, alla letteratura e allo spettacolo, e intendono mantenere alta l’attenzione sul festival e sulle tematiche che rappresenta”.

Ispirato a una storia vera, Nati 2 volte non vuole essere un film militante, e non diventa mai un film caricatura. Vi sono ritratte molte propensioni tipicamente italiane: il provincialismo, la burocrazia, la “pruderie”. Il personaggio di Maurizio, nel corso della storia, si muove all’interno di una cittadina dove lo ricordano ancora per quella persona (Teresa) che oggi non esiste più

Le vicende prendono avvio nel 1989 quando Teresa, assieme a suo padre e sua madre (interpretati da Francesco Pannofino e Daniela Giordano) per sfuggire alla “vergogna” lasciano Foligno per Milano, una città dove nessuno li conosce e nessuno soprattutto, li giudica. Qui Teresa intraprenderà quel lungo percorso che la porterà alla transizione di genere “F to M” e a diventare Maurizio. Dopo venticinque anni, Maurizio/Teresa (interpretato da Fabio Troiano) è costretto a tornare nel suo paese natale, a causa della morte della madre Angela. E qui si scontrerà per l’ennesima volta con un passato decisamente ingombrante.

Girato interamente a Foligno, Nati 2 volte, è prodotto da Time, Oberon Media e Green Film, e sarà nelle sale dal 28 Novembre grazie a Zenit Distribution, società indipendente di distribuzione cinematografica di Mauro Venditti.

Querela chi la insulta per aver invocato Hitler contro il Gay Pride, la procura: "E' stata lei a provocare, sono giustificati"

Il pm respinge la denuncia di Stella Manente: «È stata lei a rievocare le persecuzioni naziste contro gli omosessuali»

Chi l’ha insultata non è perseguibile penalmente, avendo agito in risposta a un comportamento ingiusto: questa, in sintesi, la motivazione con cui la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione della denuncia contro ignoti per diffamazione, minaccia aggravata e molestie presentata dalla modella-influencer Stella Manente che, durante l’ultimo Gay Pride, lo scorso giugno a Milano, aveva invocato Hitler sul suo profilo Instagram, perché a causa del corteo - spiegava sui social - rischiava di perdere il treno.


Subissata di proteste e insulti, la giovane si era scusata, ma poi aveva deciso di far denuncia. Denuncia per cui il pm di Milano Mauro Clerici ha chiesto l’archiviazione: “il comportamento della denunciante - si legge - costituisce palesemente un fatto ingiusto perché evocare ad alta voce Hitler nel corso di una manifestazione quale il Gay Pride significa evocare e giustificare le persecuzioni naziste contro gli omosessuali”.


L’influencer “inoltre ha dato ulteriore seguito dandovi pubblicità su Instagram e pertanto le numerose persone che hanno reagito a tale condotta, contro cui viene presentata denuncia, appaiono giustificate dal disposto di cui all’art. 599 c.p.”. Articolo per il quale “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’articolo 595 (diffamazione, ndr) nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”.

L’Arabia Saudita apre al turismo di massa. Ma per la comunità LGBT,carcere, multe e persino la morte.

È una guerra in piena regola quella dichiarata dai Paesi arabi del Golfo persico contro gli omosessuali e i trans ai quali saranno negati il visto d'ingresso e il permesso di soggiorno. Per volontà governativa della Sharia, o legge islamica.

In Arabia Saudita i Diritti LGBT non vengono in alcun modo riconosciuti; l'omosessualità risulta molto spesso essere un argomento tabù e quindi non affrontato all'interno della società: essendo inoltre considerata illegale viene punita con la reclusione, punizioni corporali giudiziarie eseguite in pubblico fino a giungere, nei casi più gravi, fino alla pena di morte.

Le persone transgender sono generalmente confuse ed equiparate agli omosessuali: sodomia, omosessualità e transessualismo sono considerati crimini e malattie, palesi segni della decadenza ed immoralità che governa l'occidente.


Secondo attivisti per i diritti civili del gruppo Blue Veins, nel marzo del 2017, due persone transgender sono state messe a forza dentro dei sacchi, picchiate con dei bastoni e torturate a morte.

La riassegnazione chirurgica del sesso è illegale in Arabia Saudita.



Fonte: UK government, The Independent

Lui è Keith Wildhaber, sergente della polizia di St. Louis in Missuri. I capi della polizia locali gli hanno negato 23 promozioni nell'arco di 15 anni. Motivo? È "troppo gay".

Keith Wildhaber è un sergente della #polizia di St. Louis in #Missouri, USA. I capi della polizia locali, nell'arco di 15 anni, gli hanno negato 23 promozioni perché "troppo #gay". Wildhaber ieri in tribunale ha vinto la causa per discriminazione: 20 milioni di risarcimento.

Nel 2017 gli avevano suggerito che, per ottenere finalmente quella promozione tanto desiderata, avrebbe dovuto «smorzare il suo essere gay» giudicato troppo «palese». Per il Sergente Keith Wildhaber, della polizia di St. Louis, Missouri, era stato come «ricevere un pugno nello stomaco»: a nulla erano servite la devozione e la professionalità dimostrate in 15 anni di lavoro.

 
Per anni si era tenuto dentro tutto. Quando aveva provato a lamentare le discriminazioni subite all'interno del corpo di polizia, i superiori lo avevano ricollocato in un'altra stazione, più lontana da casa. Nel 2017, il coraggio di denunciare all'autorità giudiziaria. E adesso la rivincita: la giuria della Contea di St. Louis ha condannato i vertici delle forze dell'ordine a versargli quasi 20 milioni di dollari.

La cifra astronomica a molti potrebbe far storcere il naso e sembrare “troppo alta”. Ed è esattamente questo il motivo per cui la giuria ha, consapevolmente, deciso di comminarla. Ai reporter locali un membro del collegio giudicante ha infatti detto che: «Volevamo mandare un messaggio. Se discrimini, dovrai pagarlo caro. Non si può difendere l'indifendibile». Ora il nuovo capo della Contea di St. Louis dice che ai vertici «ci saranno grandi cambiamenti. Le promozioni devono essere basate unicamente sul merito».

Fonte:https://www.theguardian.com/us-news/2019/oct/28/us-police-sergeant-missouri-keith-wildhaber