È quanto ha sottolineato la Suprema Corte, accogliendo il ricorso di un cittadino omosessuale della Costa d’Avorio, minacciato dai suoi parenti, a cui non era stato concesso il diritto di restare in Italia
Prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, si deve accertare se nei Paesi d'origine non solo non ci siano leggi discriminatorie e omofobe ma bisogna anche verificare che le autorità del luogo assicurino "adeguata tutela" ai gay, ad esempio se colpiti da "persecuzioni" di tipo familiare. Lo ha sottolineato la Cassazione, che ha accolto il ricorso di un cittadino omosessuale della Costa d'Avorio, minacciato dai suoi parenti. Negato il diritto di rimanere in Italia
Al protagonista di questa vicenda giudiziaria, Bakayoko Aboubakar S., arrivata fino alla Suprema Corte, la Commissione territoriale di Crotone non aveva concesso il diritto di rimanere in Italia sottolineando che "in Costa d'Avorio al contrario di altri stati africani, l'omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa". Per gli 'ermellini' questo non basta: serve accertare l'adeguata protezione statale per minacce provenienti da soggetti privati. Minacciato dai parenti
Bakayoko Aboubakar S. aveva raccontato che era di religione musulmana, coniugato con due figli, e diventato oggetto "di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre" che era imam del villaggio, "dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale". Aveva deciso di fuggire quando il suo partner era stato "ucciso in circostanze non note, a suo dire a opera di suo padre", l'imam. Secondo la Cassazione "non è conforme a diritto" - quanto deciso oltre che dalla Commissione prefettizia anche dal Tribunale di Catanzaro nel 2014, e dalla Corte di Appello di Catanzaro nel 2016 - aver negato la protezione a Bakayoko senza accertare se nel suo Paese sarebbe difeso dalle minacce dei parenti. Ordinato l'appello bis
Il caso adesso si riapre e sarà riesaminato da altri giudici nell'appello bis ordinato dagli ‘ermellini’. Nel verdetto, i supremi giudici scrivono che pur in mancanza di "riserve sulla credibilità" del profugo ivoriano - non messa in discussione nelle fasi di merito - "non risulta che sia stata considerata la sua specifica situazione" e siano stati "adeguatamente valutati" i rischi "effettivi" per la sua incolumità "in caso di rientro nel paese di origine, a causa dell'atteggiamento persecutorio nei suoi confronti, senza la presenza di una adeguata tutela da parte dell'autorità statale". "A tal uopo - prosegue la Cassazione - non appare sufficiente l'accertamento che nello stato di provenienza, la Costa d'Avorio, l'omosessualità non è considerata alla stregua di reato, dovendosi accertare in tale paese la sussistenza di adeguata protezione da parte dello Stato, a fronte delle gravissime minacce provenienti da soggetti privati".
Nessun divieto per le manifestazioni pro-lgbt nella capitale turca, Ankara.
Il tribunale locale ha accolto l’appello del gruppo lgbti+ turco “Kaos GL” contro il ban posto dal Governo di Ankara del novembre 2017, che aveva disposto il diniego di ogni attività propagandistica lgbt nel territorio della capitale per questioni di “moralità pubblica” e “sensibilità sociale“. A seguito del primo appello, andato a vuoto, dello scorso novembre, l’Associazione ha chiesto di essere riaccolta in udienza per addurre nuove argomentazioni, che sono state accettate.
Il tribunale, nello specifico, ha dichiarato che “deve essere assicurato un livello maggiore di sicurezza” anziché porre il ban su libere manifestazioni, che non possono essere vietate “neanche in stato di emergenza“: “Invece di negare i diritti e le libertà fondamentali per proteggere la pace sociale, hanno affermato che il gruppo vulnerabile a qualsiasi attacco dovrebbe essere protetto. Si può dire che la Corte abbia stabilito che lo Stato deve proteggere i diritti e le libertà fondamentali di LGBTI +” ha commentato l’avvocato di Kaos GL Hayriye Kara in una dichiarazione.
Grande soddisfazione da parte di Amnesty International, che ha così accolto la notizia da Ankara attraverso il suo portavoce Fotis Filippou, direttore delle campagne per l’Europa ad Amnesty International: “Questa è una giornata importante per le persone LGBTI in Turchia e un’enorme vittoria per gli attivisti per i diritti LGBTI. L’amore ha vinto ancora una volta.” e apre le porte ad un nuovo, storico Pride che, dopo i ban governativi di Istanbul degli ultimi due anni, potrebbe tornare a svolgersi nella capitale turca: “Le persone LGBTI e i loro alleati sono stati scandalosamente e illegittimamente banditi dal tenere eventi LGBTI da novembre 2017. Con la stagione dell’orgoglio che si avvicina il mese prossimo, celebriamo questa significativa sentenza della corte”.
Istanbul Pride 2018 Per quattro anni le autorità cittadine, fortemente influenzate da Erdogan, hanno vietato espressamente che nella città del Bosforo si tenesse il consueto + , per non meglio precisate “ragioni di sicurezza“. Una marcia storica per il mondo musulmano, che per dieci anni è stata un punto di riferimento importantissimo per la comunità lgbt turca (registrando una partecipazione altissima che in alcune edizioni ha sfiorato le 100.000 persone) e nel 2012 ha visto, tra i partecipanti, anche i manifestanti di Gezi Park. Circostanze che hanno preoccupato il regime repressivo di Erdogan: mentre nel 2015 la polizia ha utilizzatocannoni ad acqua per disperdere i manifestanti, dal 2016 il Pride ha subito l’interdizione governativa.
Nonostante questo, il primo luglio dello scorso anno un migliaio di manifestanti hanno occupato alcune vie del centro sfidando la polizia in assetto anti sommossa. Gli arrestati, circa trenta, sono stati rilasciati dopo poche ore
Sarà giunto finalmente il momento per gli amici turchi di tornare a sfilare con le loro bandiere arcobaleno? Ce lo auspichiamo per loro.
Ogni anno la giornata del 19 di Aprile è dedicata agli Indios, il popolo che abitava il Brasile prima che i Portoghesi sbarcassero nel 1500.
Commemorazione voluta nel 1943 dall’allora presidente Getulio Vargas, e da allora il 19 Aprile in tutto il Brasile si festeggia il “Dia do Índio”, la giornata dell’Indio, giorno in cui alcune delegazioni indigene decisero di partecipare al Primo Congresso Indigeno Latino Interamericano, avvenuto in Messico nel 1940. Tuttavia gli Indios , non si presentarono durante il primo giorno della manifestazione essendo stati per secoli perseguitati, aggrediti e decimati dall’ “uomo bianco “. Tuttavia dopo riunioni e riflessioni alcuni leader indigeni decisero di partecipare al Congresso, era il 19 di Aprile che fu pertanto scelta come data nel continente americano, per commemorare il Dia do Índio.
Secondo Survival International, il nuovo presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha inaugurato la sua Presidenza nel peggiore modo possibile per i popoli indigeni: «La decisione di togliere al Funai (Fundação Nacional do Índio) la responsabilità di demarcare le terre indigene per affidarla al ministero dell’agricoltura è praticamente una dichiarazione di guerra ai primi popoli del paese. Tereza Cristina, il nuovo ministro dell’agricoltura, si oppone da tempo ai diritti territoriali indigeni ed è a favore dell’espansione dell’agricoltura all’interno dei loro territori. E’ un assalto ai diritti, alle vite e ai mezzi di sussistenza dei popoli indigeni del Brasile: se le loro terre non saranno protette, rischiano il genocidio. E intere tribù incontattate potrebbero essere spazzate via».
Per Survival, «Questo attacco ai primi popoli del paese è anche un attacco al cuore e all’anima stessa della nazione. Il furto dei territori indigeni getta infatti le basi per la catastrofe ambientale. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale: le prove dimostrano che sanno prendersi cura dei loro ambienti e della fauna meglio di chiunque altro».
Ma gli indios annunciano resistenza e l’Articulação dos Povos Indígenas do Brasil (Apib) sottolinea: «Per coloro che avevano dubbi sugli interessi che Bolsonaro rappresenta, già nel suo primo giorno di governo, ha chiarito il suo impegno per ciò che sta dietro a tutto in Brasile. A cominciare dalla Medida Provisória número 870 del 1° gennaio 2019, ha riconosciuto il suo debito verso la Bancada Ruralista e ha trasferito sotto la responsabilità del ministero dell’agro-business l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e la registrazione delle terre indigene, che storicamente erano attribuzioni del Funai, data la sua missione di proteggere e promuovere i diritti delle popolazioni indigene».
Secondo la federazione dei popoli indigeni, «Bolsonaro e i colonnelli della Banccada Ruralista sanno che per mettere più terra sul mercato, dovranno rendere impossibile delimitare terre indigene, quilombolas, gli insediamenti della riforma agraria e le unidades de conservação. Ma sanno anche che il mondo tende a un nuovo modo di produrre e consumare e non esiteranno a denunciare questo governo e l’agri-business ai quattro angoli del mondo, denunciando e chiedendo l’adozione e il rispetto delle salvaguardie sociali e ambientali necessari al fedele adempimento dei nostri diritti costituzionali. Siamo preparati, non ci ritireremo, non rinunceremo ai diritti conquistati, per non parlare dei nostri territori, per onorare l’accordo tra Bolsonaro ei suoi colonnelli».
L’Apib – alla quale aderiscono alla quale aderiscono Articulação dos Povos e Organizações Indígenas do Nordeste, Minas Gerais e Espírito Santo (Apoinme, 64 popoli indigeni), Articulação dos Povos Indígenas do Sudeste (Arpin Sudeste), Articulação dos Povos Indígenas do Sul (Arpinsul), Comissão Guarani Yvyrupa, Conselho do Povo Terena, Grande Assembléia do Povo Guarani (Aty Guasu), Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira (Coiab – sottolinea: «Noi indigeni rispettiamo i nostri antenati e ci impegniamo a favore delle generazioni future, siamo pronti a difendere i nostri modi di vita, la nostra identità e i nostri territori con le nostre vite e invitiamo la società brasiliana a unirsi alla nostra lotta in difesa di un paese più giusto, solidale e del nostro diritto di esistere. Per questo l’ Articulação dos Povos Indígenas do Brasil- APIB Associazione dei popoli indigeni del Brasile-Apib raccomanda che ogni Stato, organizzi l’avvio di una azioni popolare, chiedendo legalmente l’annullamento degli atti del presidente Jair Bolsonaro Messias, che distruggono praticamente tutta la politica indigena brasiliana. Demarcação Já!!!!»,
E l’Apib è passata dagli appelli ai fatti: ha presentato una denuncia per chiedere la sospensione degli atti approvati da Bolsonaro per violazione della Costituzione, delle leggi.
Anche gli indios Aruak, Baniwa e Apurinã annuncianmi resistenza contro il neofascista Bolsonaro: «Non vogliamo essere spazzati via dalle azioni di questo governo. Le nostre terre giocano un ruolo fondamentale nel preservare la biodiversità”.“Siamo persone, esseri umani, il nostro sangue è come il suo Signor Presidente; nasciamo, cresciamo… e poi moriamo nelle nostre terre sacre, come ogni persona sulla Terra. Siamo pronti al dialogo, ma siamo anche pronti a difenderci».
il direttore generale di Survival, Stephen Corry, promette l’appoggio della sua ONG: «Survival International è da 50 anni al fianco dei popoli indigeni del Brasile , per la loro sopravvivenza, per la protezione dei territori a più alta biodiversità del Paese, per la salute del nostro pianeta e per tutta l’umanità” ha dichiarato. Continueremo a lavorare instancabilmente perché i loro diritti e le loro terre siano pienamente rispettati e difesi».
Guarani e Kaiowá lançam campanha contra revisão de demarcações
In onore del mese dell'orgoglio LGBTQ, ecco 10 libri di sulle esperienze LGBT contemporanee, pubblicate quest'anno. Se non hai ancora avuto la possibilità di conoscere, ora è un bel momento!
Pochi giorni fa, un uomo 40enne ha raccontato a Vanity Fair la sua fuga dal Brunei e l’odio da parte della sua famiglia nei suoi confronti per la sua omosessualità. Lui sembra sia stato il primo a scappare. Ma l’intera comunità LGBT sta cercando di fuggire dal Paese, per non essere arrestata, incarcerata e rischiare di essere condannata a morte per lapidazione. Una nuova storia è quella di Zoella Zayce, una ragazza transgender di 19 anni, fuggita dal Brunei lo scorso anno per Vancouver.
In Canada, proprio come il suo conterraneo, ha fatto domanda per lo status di rifugiato, che dovrebbe essere accolta, visto che rischia la morte. Al momento vive a Vancouver, in un seminterrato. La risposta alla sua domanda di asilo non dovrebbe tardare ancora molto ad arrivare, essendo passati circa 4 mesi dalla sua presentazione. Oltre che per le leggi omofobe ispirate alla sharia, Zoella è fuggita anche dalla sua famiglia, che non avrebbe mai accettato la sua transessualità. Della quale è ancora ignara. L’odio della famiglia e delle istituzioni in Brunei
Zoella non ha detto a nessuno di essere una ragazza transgender. Nemmeno alla sua famiglia, conservatrice. La sua identità di genere è un segreto per tutti, ma i familiari pensavano fosse omosessuale. Per questo motivo, a 11 anni, l’hanno portata da un esorcista, che l’avrebbe “liberata” dalla sua condizione. Naturalmente, invece che guarire, Zoella è rimasta traumatizzata, data anche l’età che aveva al momento dell’esorcismo.
La ragazza ha spiegato che ha scelto il Canada perché è uno Stato molto aperto, dove ognuno può vivere la sua vita liberamente, indipendentemente dal suo orientamento sessuale. Inoltre, il Canada è molto distate dal Brunei, quindi è anche difficile che la sua famiglia riesca a raggiungerla e rintracciarla, riportandola a casa. Nonostante l’attacco alla comunità LGBT, Zoella spera un giorno di fare ritorno nel suo paese di origine, poiché si sente molto legata alle sue tradizioni. Al momento, però, tornare significa rischiare la vita. Quindi, attende la decisione del Canada, e nel frattempo lavoro full time per dimostrare la sua volontà di iniziare una nuova vita lì.
Lapidazione a morte per l'adulterio e i rapporti omosessuali fra uomini, in osservanza al codice islamico della sharia, la legge coranica. Sono queste le controverse misure entrate in vigore nel piccolo, ricchissimo sultanato del Brunei, nel Sud-est asiatico. La notizia nei giorni scorsi aveva suscitato condanne da tutto il mondo. Choccata la comunità gay del piccolo stato nel nord dell'isola di Borneo che ha parlato di ritorno al “Medioevo”. Nei giorni scorsi è stata anche lanciata una campagna di boicottaggio dall'dall'attore George Clooneycontro gli alberghi di lusso posseduti in varie parti del mondo dal sultano del Brunei. SVOLTA INTEGRALISTA - L'omosessualità era già un reato in Brunei, punibile con pene fino a dieci anni di carcere. Le nuove misure fanno parte di un processo avviato nel 2014 per una progressiva introduzione della sharia nel piccolo paese asiatico, dove i due terzi dei 420mila abitanti sono di religione musulmana. Il nuovo codice si applica a tutti i musulmani che abbiano raggiunto la pubertà, anche se alcune misure coinvolgono anche i non musulmani. Reati come lo stupro, l'adulterio, la sodomia, la blasfemia e la rapina avranno ora come massima pena la condanna a morte. I rapporti lesbici verranno invece puniti con un massimo di 40 frustate e dieci anni di carcere. Per il furto è prevista l'amputazione degli arti. In Brunei la pena di morte non è mai stata abolita, ma l'ultima esecuzione risale al 1957.
L'UNIONE EUROPEA - “Alcune delle pene previste nel codice penale” in Brunei “equivalgono a torture, atti di trattamento crudele, inumano o degradante che sono vietati dalla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che è stata firmata dal Brunei-Darussalam nel 2015”. A sostenerlo è il portavoce del servizio di azione esterna dell'Ue (Eeas) dopo l'entrata in vigore delle nuove misure previste dalla sharia. “È fondamentale che il governo del Brunei garantisca che l'attuazione del codice penale non violi i diritti umani e che sia pienamente coerente con tutti gli impegni e gli obblighi internazionali e regionali in materia di diritti umani intrapresi” dal sultanato. “L'Unione europea si aspetta anche che il Brunei mantenga la sua moratoria di fatto sull'uso della pena di morte”, conclude il portavoce.
NON SOLO IL BRUNEI - Secondo l'associazione Nessuno Tocchi Caino la criminalizzazione per atti sessuali tra persone dello stesso sesso è portata alle estreme conseguenze della pena capitale in almeno 12 Paesi membri dell'Onu, tutti a maggioranza musulmana, dove è prevista dalla legge ordinaria o applicata in base alla legge della sharia, che in alcuni casi funge da codice penale: Afghanistan, Arabia Saudita, Brunei Darussalam, Iran, Iraq, Mauritania, Nigeria, Pakistan, Qatar, Somalia, Sudan e Yemen. Negli Emirati Arabi Uniti, avvocati e altri esperti non concordano sul fatto se la legge federale preveda la pena di morte per il sesso consensuale tra omosessuali o solo per stupro.
PENA DI MORTE PER LAPIDAZIONE - Nel mondo in altri sei Paesi essere omosessuale può costare la vita, con la pena di morte per lapidazione. La pena capitale con questa modalità è in vigore in sei nazioni, tutti Stati membri delle Nazioni Unite. Tre si trovano in Asia (Iran, Arabia Saudita e Yemen) e altre tre in Africa (Nigeria, Sudan e Somalia) dove la lapidazione è prevista per legge e viene effettivamente praticata. La lapidazione è una opzione possibile per legge anche in Mauritania, Emirati Arabi, Qatar, Afghanistan e Pakistan, ma di recente non è stata messa in atto
Da ieri è entrato ufficialmente in vigore il ban per le persone transgender nelle forze militari statunitensi, una divieto voluto da Donald Trump nel luglio del 2017 e che ha fatto discutere tutto il mondo, in particolare le associazioni LGBT e la comunità scientifica, ancora una volta contrariata dalle politiche scellerate del Presidente.
A rischiare il posto di lavoro sono circa 13.700 militari transgender degli Stati Uniti, secondo i numeri del Palm Center, che sarebbero licenziati qualora emergesse il bisogno cure mediche correlate alla transizione di genere per alleviare i sintomi. Inoltre, le persone con disforia di genere non saranno più idonee ad intraprendere la carriera militare, tutti dovranno prestare servizio secondo il sesso alla nasciata, mentre chi ha avuto in passato episodi di disforia dovrà dimostrare di sentirsi stabilmente maschio o femmina coerentemente con il proprio sesso biologico da almeno 3 anni.
Un divieto grave che mette a rischio il lavoro, la libertà e la stessa salute di migliaia di persone, come sottolineato dal Palm Center: «Il fondamento logico alla base del divieto dipende dalle distorsioni scientifiche che l’American Psychological Association e l’American Psychiatric Association hanno condannato sin da subito. Facendo eco al principio della politica del “don’t ask don’t tell”, le persone transgender saranno costrette a lasciare l’esercito o a prestare servizio in silenzio, con la paura che esprimendo qualsiasi forma di angoscia possano essere considerate inadatte».
Le scuse di Rose McGowan ai militari transgender: guarda il video di PinkNews
È il 1981 e l’aria sul set del nuovo film 007, Solo per i tuoi occhi, trabocca di così tanto sex appeal da poterla tagliare con un coltello. Un manipolo di “Bond Girls” in bikini, baciate dal sole e pronte a scattare una foto stampa con Roger Moore, sorridono alla macchina fotografica per l’ennesima immagine della storia del franchise.
Alla fine della fila, all’estrema sinistra, si vede Caroline “Tula” Cossey, leggendaria modella britannica che, vista in prospettiva, è la vera star della foto. La protagonista non è la più conosciuta solo perché già apparsa su Vogue, Harper’s Bazaar e altre pubblicazioni di alta moda, ma perché, in segreto, è la prima Bond Girl transessuale, rimasta l’unica fino al giorno d’oggi. La storia di Tula
Cossey nacque in una piccola città in Inghilterra nel 1954, dove venne definita “né maschio né femmina”. Nonostante fosse riconosciuta come maschio nel suo certificato di nascita, Caroline aveva un aspetto spiccatamente femminile sin dalla giovane età, sostanzialmente era “divisa, biologicamente” possedendo più cromosomi X rispetto al maschio medio.
Durante la pubertà, Caroline mostrava un aspetto chiaramente femmineo a causa di una variante della sindrome di Klinefelter, dove, invece di avere il modello cromosomico femminile XX, possedeva il genotipo XXXY (le persone con la sindrome di Klinefelter di solito hanno XXY).
Caroline Cossey da bambina, a sinistra, con la sorellina accanto:
Cossey spiegò cosa stesse succedendo al proprio corpo ai suoi genitori e, con il loro coraggioso aiuto, iniziò la terapia ormonale all’età di 17 anni. Poco dopo andò a lavorare come usciera a Londra, e iniziò a fare la modella non molto tempo dopo, quando alcuni addetti ai lavori vennero colpiti da quello che lei definisce il suo look “androgino”.
A 17 anni:
Dopo l’intervento chirurgico per ottenere delle protesi al seno iniziò a lavorare fra Parigi e Roma per guadagnare abbastanza da completare il processo chirurgico di riassegnazione di genere. Nel 1974, all’età di 20 anni, si era completamente trasformata e aveva cambiato legalmente il suo nome per iniziare a vivere da donna, lasciandosi alle spalle la vita passata.
O almeno così pensava
Grazie a un fisico perfetto e a una grande bellezza, Caroline riuscì a raggiungere le vette del mondo della moda. Ma le voci riguardo quella donna “troppo perfetta” circolarono nell’ambiente in modo crescente, e i giornali scandalistici scavarono nel passato della Cossey. All’inizio degli anni ’80 News of the World uscì con un articolo dal titolo “James Bond Girl Was a Boy! – La Bond Girl era un ragazzo”, e poi tutti gli altri seguirono l’onda dello scandalo.
La sua carriera da modella finì immediatamente, così come quella cinematografica
Caroline Cossey iniziò a muoversi legalmente contro la legge britannica, che allora impediva l’alterazione legale del proprio certificato di nascita. La sua battaglia iniziò grazie al fidanzamento con Glauco Lasinio, che l’incoraggiò a far valere i propri diritti nelle aule dei tribunali.
Il fidanzamento finì, ma la battaglia di sette anni di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo proseguì per 7 anni
Dopo aver rotto con Lasinio, Tula incontrò Elias Fattal, un uomo d’affari, che ignorava la sua storia fino a quando le propose il matrimonio nel giorno di San Valentino del 1988. Quando lei gli disse che era un transessuale, invece di rifiutarla, Fattal chiese semplicemente se si sarebbe convertita all’ebraismo, e Caroline accettò.
Si sposarono il 21 maggio 1989, poche settimane dopo che la Corte europea dei diritti umani aveva deciso legalmente di riconoscere Tula come donna. Tornati dalla luna di miele scoprirono che il News of the World aveva pubblicato una storia sul loro matrimonio, ed Elias lasciò la donna perché la madre era riuscita a leggere la notizia.
Il 27 settembre 1990, la Corte europea annullò la propria decisione a seguito del ricorso del governo britannico. (Il diritto di cambiare il sesso per le persone transgender nel Regno Unito non sarebbe stato concesso fino al Gender Recognition Act del 2004.) Tula tornò a fare la modella, una carriera cui aveva rinunciato quattro anni prima.
Tula sposò il canadese David Finch nel 1992, e oggi vivono insieme a Kennesaw, vicino ad Atlanta, in Georgia, negli Stati Uniti.
La storia della transizione di Tula, raccontata da Playboy:
Sotto, un controverso episodio del The Phil Donahue Show, dove la modella viene intervistata dal conduttore e dal pubblico, con domande scomode ricche di pregiudizi e facile ironia:
Oggi le donne transgender sono al centro dell’attenzione della cultura pop (Caitlyn Jenner, Andreja Pejić, Laverne Cox o Valentina Sampaio, per fare alcuni esempi), ma allora erano persone scomode, in tutte le circostanze.
La lotta di Caroline Cossey come prima supermodella transgender rappresenta una delle più feroci battaglie della storia LGBTQ+. La sua autobiografia “My Story” è disponibile su Amazon, mentre su Instagram trovate l’account gestito da Caroline stessa.
La strada dei transgender giapponesi per il cambiamento legale del genere è fatta di sofferenza e violazioni. Il diritto, sebbene alcuni passi avanti fatti negli ultimi anni, considera l'identità transgender come una malattia mentale e costringe coloro che decidono di cambiare genere ad affrontare procedure invasive, costose e irreversibili.
Sterilizzati. In Giappone, le persone transgender che vogliono cambiare legalmente il loro genere devono fare appello ad un tribunale di famiglia ai sensi del Gid Act (Gender identity disorder) introdotto nel 2004. La procedura è a dir poco discriminatoria. Ai candidati single e senza figli sotto i 20 anni è richiesto di sottoporsi a una valutazione psichiatrica per ricevere una diagnosi di "disturbo dell'identità di genere" cui fa seguito un intervento di sterilizzazione. Una procedura draconiana e dannosa per la salute psicofisica delle persone costrette a subire un'operazione invasiva e definitiva.
Il rapporto. A puntare il dito contro queste leggi è il rapporto di Hrw "Giappone: la sterilizzazione forzata delle persone transgender". Il rapporto si basa sulle interviste a 48 persone transgender, nonché con avvocati, operatori sanitari e accademici. Alcuni testimoni hanno affermato di non voler sottoporsi alla sterilizzazione, altri hanno spiegato i compromessi cui sono stati obbligati a scendere. "Certo che voglio cambiare legalmente genere ma gli ostacoli che devo superare sono semplicemente troppo grandi".
iolati. Negli ultimi anni, i tribunali regionali per i diritti umani e altri organismi per i diritti hanno rilevato che i requisiti legali richiesti dal Giappone violano la legge internazionale sui diritti umani. Nel 2013, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha osservato che le persone transgender "siano obbligate a sottoporsi a interventi di sterilizzazione spesso indesiderati come prerequisito per godere del riconoscimento legale del loro genere".
Passi avanti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato la sua nuova Classificazione Internazionale delle Malattie, che rimuove i "disordini dell'identità di genere" dalla sezione "disordini mentali" come nel 2012 ha fatto l'American Psychological Association. La nuova edizione della CIM sarà presentata ai paesi membri dell'Assemblea Mondiale della Sanità nel maggio 2019 per l'approvazione. Nel documento i "disordini dell'identità di genere" sono stati sostituiti dalla dicitura "incongruenza di genere" passando la diagnosi dai "disturbi mentali" a un capitolo sulla salute sessuale.
Negli ultimi anni il governo nazionale giapponese ha compiuto diversi passi positivi verso il riconoscimento e la protezione della comunità LGBTI sottolinea Human Rights Watch. Il Ministero dell'Istruzione nel 2016 ha pubblicato una "Guida per insegnanti" che illustra come trattare gli studenti transgender nelle scuole. Nel 2017, il ministero ha annunciato di aver rivisto la politica nazionale di prevenzione del bullismo.
In attesa di ospitare le Olimpiadi del 2020, il governo metropolitano di Tokyo ha approvato una legge che stabilisce che "il governo cittadino, i cittadini e le imprese non possono discriminare indebitamente in base all'identità di genere o all'orientamento sessuale". Inoltre il Giappone ha votato per due risoluzioni del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per porre fine alla violenza e alla discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere.
Da sinistra: Prima classificata Kanwara Kaewjin dalla Tailandia, Miss Internazionale Queen Jazell Barbie Royale dagli Stati Uniti e seconda runner-up Yaya dalla Cina
Miss International Queen è il concorso di bellezza più grande e prestigioso al mondo per che premia donne transgender provenienti da diverse parti del mondo. Si tiene ogni anno nella città di Pattaya, in Thailandia dal 2004.
Il fine ultimo del concorso è quello di mettere l'accento alla consapevolezza sui diritti delle persone LGBTQ e Transgender e all'uguaglianza sia nella società che nel lavoro, mentre tutti i guadagni e gli introiti monetari della trasmissione televisiva vanno alla Royal Charity AIDS Foundation of Thailand.
la quattordicesima edizione di Miss International Queen, si è tenuta l'8 marzo 2019, nella città di Pattaya in Tailandia. Nguyễn Hương Giang dal Vietnam ha incoronato il suo successore, Jazelle Barbie Royale degli USA ,alla fine dell'evento. All'evento hanno partecipato 19 candidate provenienti da ogni parte del mondo tra cui Brasile, Perù e numerosi stati asiatici. “Spero che questa mia vittoria serva da ispirazione a tante altre persone di colore e che in tante possano seguire il mio esempio”.
"È stato difficile venire qui in Thailandia per competere per questo titolo perché non c'è nessun altro in passato che lo abbia vinto che mi somigli", aveva ammesso Jazell, 31 anni di Orlando e attivista nella lotta contro l'HIV a Travel News Asia giusto il giorno prima di essere insignita del titolo di trans più bella del mondo tra 19 candidate provenienti da ogni parte del globo. "Anche quest'anno non c'e nessuno che sia simile a me, o addirittura che ci vada vicino. Quindi è stato tutto un po' complicato, e ho avuto più di un dubbio riguardo alla mia partecipazione. Sto sprecando il mio tempo? Sarò trattata allo stesso modo? Sarò presa in considerazione per la vittoria?".
"In America, c'è ancora tanto razzismo", ha detto Barbie Royale nel video introduttivo di Miss International Queen. "Penso che sia molto importante che il mondo veda le donne trans africane in maniera positiva", ha specificato poi, "spero che questa mia vittoria serva da ispirazione a tante altre persone di colore e possano seguire il mio esempio". Sul palco anche una stoccata al "suo" Presidente Donald Trump, non sempre benevolo e open minded con la comunità trans ( "Se potessi inviargli un messaggio gli scriverei di non correre per le prossime presidenziali", ha detto Jazell, senza girarci intorno). Okay, quindi Jazell non è solo bellissima, ma ha anche tanto (di bello) da dire.
Nguyễn Hương Giang dal Vietnam ha incoronato il suo successore, Jazelle Barbie Royale degli USA