Sentirsi in gabbia. Essere un giovane LGBT in una famiglia che non ti accetta


DI GIACOMO · 4 NOVEMBRE 2021

Articolo di Marta Borraz pubblicato sul sito della fondazione Reflejos de Venezuela (Venezuela) il 1 maggio 2020, liberamente tradotto da Sabrina

Jorge è stato colto dalla dichiarazione di allarme per l’emergenza coronavirus a La Laguna (Tenerife, Spagna), dove studia medicina. Il convitto in cui viveva ha chiuso, ed è stato costretto a tornare a casa dei genitori dove ha trascorso la sua infanzia, nella valle dell’Orotava. Per questo ventenne gay il ritorno è stato anche un ritorno al nascondiglio che, dopo quasi un mese di reclusione, è una strada tutta in salita: «Ho già imparato a vivere una doppia vita da quando sono qui, ma così a lungo, giorno dopo giorno, diventa pesante».

Jorge, che usa un nome fittizio, non può parlare al telefono per paura che i suoi genitori lo sentano, quindi usa WhatsApp per rispondere. Qualche tempo fa ha provato a dire alla sua famiglia che è gay, ma «hanno finito per dirmi che sono una persona indecisa e confusa, che non sa quello che vuole, che non sarei felice e non avrei una famiglia». Il rifiuto significa che ogni volta che torna a casa, nei fine settimana o in vacanza, diventa di nuovo invisibile, però ora il contatto costante e la mancanza di spazi in cui mostrarsi così com’è ha un impatto sulla sua salute mentale e provoca in lui «stanchezza, tristezza e ansia».

Il suo caso non è l’unico documentato dalla FELGTB (Federazione Statale Lesbiche, Gay, Trans e Bisessuali), che segnala la situazione di vulnerabilità che possono attraversare le persone, per lo più giovani, che vivono 24 ore al giorno con famiglie «che negano la loro identità o rifiutano il loro orientamento sessuale». Per far fronte a questa e ad altre questioni relative alla comunità LGTBI, la FELGTB ha istituito un telefono e un indirizzo e-mail, chiamato Rainbow Line (Linea Arcobaleno), prima della chiusura dei servizi di informazione e di accompagnamento in presenza.

Inoltre, un gruppo di ricercatori di varie università spagnole ha avviato uno studio per conoscere le conseguenze psicosociali che possono derivare dallo stato di quarantena sulle persone LGTBI. Per fare questo hanno lanciato un sondaggio e, tra le altre cose, valuteranno gli effetti dell’invisibilità in casa, dove ora passiamo tutto il nostro tempo.

Miguel Ángel López, dell’Università Rey Juan Carlos, e Lucas Platero, dell’Università Autonoma di Barcellona, spiegano che molti giovani che sono tornati dalla loro famiglia raccontano storie simili: che preferiscono «non affrontare l’argomento o parlarne», «sono preoccupati per ciò che pensano gli altri», «si sentono rifiutati» o dicono che i loro familiari «non sanno cosa succede loro, o non li capiscono».

«Sta diventando sempre più difficile per me»

Jorge non ha ancora utilizzato la Rainbow Line, ma non esclude di farlo. Dal 19 marzo scorso il telefono ha ricevuto quasi duecento richieste, alcune proprio per questo motivo. Non è stato utilizzato nemmeno da Sukaina (nome fittizio), che vive con sua madre, suo marito e la sua sorellina in una città che preferisce non rivelare. Nonostante il fatto che sia uscita allo scoperto al lavoro e nei suoi gruppi di amici, nessun membro della sua famiglia sa che è lesbica: «Non lo accettano. Ci sono state situazioni scomode quelle volte che l’argomento è venuto fuori, quindi cerco semplicemente di non parlarne, annuisco e basta», spiega Sukaina, che, come Jorge, si esprime via messaggi.

La paura del rifiuto e che «smettano di parlarmi» sono le paure che le impediscono di considerare di fare un passo che, dice, sarà più vicino il giorno in cui diventerà indipendente e smetterà di vivere con loro: «Per il momento devo fingere di essere quella che non sono per paura che emerga qualche problema. Sono abituata, quindi immagino che non mi tocchi più come prima, ma ora sono 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana».

Evitare qualsiasi argomento relativo al suo orientamento sessuale o alla comunità LGTBI è anche la massima di Jorge ogni volta che è con i suoi genitori, ma soprattutto durante questo periodo di reclusione: «A casa sto vivendo il contrario della convivenza, è un logorio continuo dovuto alla mancanza di accettazione». La quarantena dovuta al coronavirus è per lui una sorta di confino interno aggiunto, un doppio confino che a volte provoca sensi di colpa e angoscia: «Parlare con naturalezza di ciò che sono non mi farebbe sentire un mostro. Sono i miei genitori e mi amano nonostante i preconcetti, ma non sono libero».

La diversità delle situazioni documentate dalla FELGTB va dal rifiuto più sottile al più diretto. Anche Kai, persona non binaria e pansessuale (attrazione affettiva e/o sessuale verso altre persone indipendentemente dal loro genere) sta attualmente vivendo una situazione di questo tipo. Abitualmente risiede a Gran Canaria, dove vive con il suo coinquilino, ma la dichiarazione dello stato di allarme del 14 marzo scorso l’ha sorpres3 a visitare la casa di sua madre, che non accetta la sua identità e continua ad usare il nome e il genere che l’è stato assegnato alla nascita.

«Le mie visite occasionali non generano molto conflitto. La negazione della mia identità mi colpisce psicologicamente e mi ferisce, ma lo sopportavo perché erano brevi visite. Amo mia madre e voglio continuare ad averla nella mia vita», riflette Kai, anche l3 via WhatsApp. Ora, il mese di convivenza «mi rende le cose difficili». È passato poco più di un anno da quando è uscit3 allo scoperto con le persone a l3 care, ma sua madre è stata l’ultima a cui l’ha detto: «Riguardo al mio orientamento, la sua reazione iniziale era che ero confus3 e che mi avrebbe chiarito le idee. Per quanto riguarda il mio genere, per lei non esiste».

Reti di supporto

Il disagio che genera l’invisibilità è sempre presente, ma si riproduce e aumenta in modo straordinario durante questo periodo, spiega lo psicologo Alejandro Alder, che il 3 aprile scorso ha tenuto una conferenza online su questo argomento. L’esperto parte dalla varietà di situazioni e di esperienze che possono verificarsi, ma sottolinea che il fatto che essere costretti a stare a casa in un ambiente discriminatorio «può aumentare lo stress, la malinconia, la paura, la tristezza o il senso di vuoto o di abbandono».

Il rifiuto «complica la vita della persona» che lo sta vivendo, «rendendo più difficile il confino», che già per chiunque può portare a un disagio emotivo. Per questo Alder sottolinea l’importanza di avere una rete di persone con cui poter esprimere apertamente le proprie emozioni. L’idea è anche quella di mantenere le cure a distanza, come sottolinea Jorge, che conta sul sostegno dei colleghi dell’Associazione Diversas, che si attiva a favore dei diritti di persone LGBTI con diversità funzionale.

Sukaina apprezza il tempo trascorso al telelavoro, durante il quale riesce ad evadere, e anche il contatto quotidiano con i suoi amici: «Di solito mi appoggio molto a loro, anche se a distanza. È triste pensare di poter essere me stessa solo attraverso uno schermo».

Testo originale: https://www.facebook.com/fundacionreflejosdevenezuela/



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